La tragedia dell'accumulo e il destino di Mazzarò
I magazzini di Mazzarò "grandi come chiese" traboccano di grano, i suoi armenti occupano interi campi e strade, tanto che persino le processioni religiose devono modificare il percorso. L'enormità dei suoi possedimenti viene descritta con immagini iperboliche che riflettono lo stupore popolare.
La vita di Mazzarò è regolata da un'ossessione monomaniaca per il lavoro e l'accumulo di ricchezza. Non beve vino, non fuma, non gioca d'azzardo, non ha donne - eccetto sua madre, della quale rimpiange persino i dodici tarì spesi per il funerale. La sua filosofia di vita è sintetizzata nel proverbio: "la roba non è di chi ce l'ha, ma di chi la sa fare".
Tuttavia, Verga rivela il tragico rovescio della medaglia di questa esistenza dedicata esclusivamente al possesso. Quando Mazzarò comprende di dover morire e abbandonare tutte le sue proprietà, la sua reazione è tanto violenta quanto patetica: esce nel cortile "come un pazzo" e inizia a uccidere a bastonate le sue stesse anitre e tacchini, urlando "Roba mia, vientene con me!".
💡 Il finale della novella svela il cupo pessimismo di Verga: l'accumulazione ossessiva di beni materiali non può offrire alcuna salvezza di fronte alle leggi naturali della vita e della morte.
La conclusione trasforma drasticamente il tono del racconto, portando alla luce gli esiti perversi del meccanismo della "roba". Mazzarò diventa così il ritratto di una mentalità schiavizzata dalla legge del continuo accumulo, anticipando temi che Verga svilupperà pienamente in "Mastro-don Gesualdo".