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PIRANDELLO

23/11/2022

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LUIGI PIRANDELLO
Luigi Pirandello nacque nel 1867 a Girgenti da una famiglia agiata. Studiò al liceo classico di
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LUIGI PIRANDELLO Luigi Pirandello nacque nel 1867 a Girgenti da una famiglia agiata. Studiò al liceo classico di Palermo, poi si iscrisse alla facoltà di Lettere. Di qui passò nel 1887 all'università di Roma, poi a quella di Bonn dove conseguì la laurea. Al suo ritorno, volendo dedicarsi alla letteratura, si stabilì a Roma dove cominciò a collaborare con poesie e scritti critici a riviste come la "Nuova Antologia" e il "Marzocco". Nel 1894 Luigi Pirandello sposò Antonietta Portulano, dalla quale avrà tre figli. Nel '97 gli venne conferita, presso l'Istituto Superiore di Magistero, la cattedra di stilistica e poi di letteratura italiana, che terrà fino al 1925. Seguì, a partire dal 1903, un periodo difficile per lo scrittore, a causa della rovina dell'azienda paterna e con essa del patrimonio suo e della moglie. Subisce il fenomeno della declassazione, ritrovandosi dalla borghesia agiata alla piccola borghesia grigia e soffocante, spunto per le sue opere. Intanto pubblica poesie, saggi, romanzi e novelle, ma la fama gli arriva come autore drammatico. A partire dal 1922 Luigi Pirandello organizza una raccolta completa delle sue novelle sotto il titolo "Novelle per un anno", che allude al progetto, rimasto incompiuto (con un totale di 218 novelle), di scrivere una novella per ogni giorno dell'anno. Nel '25 Luigi Pirandello lascia l'insegnamento...

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Didascalia alternativa:

per dirigere il Teatro d'arte di Roma e fondare una sua compagnia. Nel '34 gli fu conferito il Nobel per la letteratura. Morì a Roma nel 1936. LA VISIONE DEL MONDO Vitalismo - flusso continuo, frantumazione dell'Io, relativismo conoscitivo Alla base della visione del mondo di P vi è una concezione vitalistica, (in linea con la teoria dello slancio vitale di Bergson) secondo cui la realtà è tutta vita, ovvero è data da un flusso continuo, apri ad un terreno divenire, inarrestabile. Anche l'uomo è parte di questo flusso, eppure egli cerca di fissarsi nella realtà che lo circonda, fissandosi in una "forma", ovvero assegnandosi una personalità che crediamo nostra. Anche gli altri individui, anch'essi forme, ci percepiscono secondo la loro visione. Conseguenza: crediamo di essere 1, ma siamo tanti individui a seconda di chi ci osserva. È quindi chiaro che queste forme siano delle costruzioni, degli artifici che l'uomo attua per potersi sentire più sicuro e per mettere ordine nella vita; ma altro non sono che delle maschere, al di sotto delle cui vi è appunto un fluire indistinto e in perenne mutazione/trasformazione. La conseguenza principale e più sconcertante è quindi la frammentazione dell'io, che diventa "nessuno". A tal proposito è necessario considerare il periodo storico in cui Pirandello vive, quello di inizio 900: si ha una forte crisi dell'identità, data da una serie di fattori e nuove scoperte, come la diffusione dell'uso delle macchine, che spersonalizzano e alienano l'individuo, il formarsi delle metropoli moderne anonime, la nascita della teoria della relatività einsteniana, la scoperta dell'inconscio di Freud e la filosofia di Nietzsche. Inoltre vi è una grande sfiducia nelle certezze oggettive positivistiche. Da questa frammentazione deriva anche un radicale relativismo conoscitivo: ognuna ha la propria verità e ognuno osserva realtà da proprio punto di vista, quindi sussiste una incomunicabilità tra gli uomini, e i rapporti sociali non sono altro che fittizi e costruiti perché necessari (6 personaggi) Le trappole e come uscirne (rifiuto della socialità) Le forme in cui l'individuo si cristallizza sono definite da P delle "trappole", che dunque imprigionano i personaggi pirandelliani, che necessitano invece di autenticità e spontaneità. Le trappole più importanti sono quella familiare e quella economica, data dal proprio impiego: dell'ambiente familiare P coglie il carattere opprimente, le tensioni, il rancore e l'ipocrisia (M Pascal nessuno si dispiace per sua morte / Belluca intrappolato famiglia); mentre riguardo al lavoro P sottolinea anche in questo caso l'oppressione e l'alienazione che esso provoca nell'uomo (lavori monotoni o meccanici come Belluca, ma anche avvocato non soddisfatto). Attua quindi una forte critica alla borghesia (piccola in novelle - alta in teatro), ma non in modo costruttivo né proponendo alternative, (come potrebbe essere ad esempio il socialismo). Pirandello non fornisce delle soluzioni pratiche per liberarsi da queste trappole, e la critica alla trappola del lavoro non si traduce in un impegno politico o sociale. Le uniche vie di fuga possono essere l'immaginazione che trasporta in un "altrove" fantastico (Belluca che con fischio treno sogna paesi lontani per fuggire dall'oppressione dell'impiego e della famiglia), oppure la follia (Enrico IV; Uno nessuno e centomila, se si è folli nessuno si aspetta alcunché da noi e non ci vengono assegnate delle forme cui dobbiamo attenerci), o ancora in quella che è al figura del forestiere della vita, colui che abbandona forma e identità (Pascal - Meis). In ogni caso no soluzioni razionali. L'umorismo (poetica) Questo concetto viene enunciato nell'omonimo saggio. Nella concezione dell'opera d'arte, la riflessione si nasconde, restando invisibile; mentre essa emerge e fa da giudice nel momento in cui si concepisce un'opera umoristica. Grazie all riflessione si passa da quello che P definisce avvertimento del contrario al sentimento del contrario, ovvero si passa dal comico all'umoristico. ES: vedo donna vecchia tinta e vestita come una giovane ragazza, e avverto che ciò che sto osservando corrisponde al contrario di ciò che dovrebbe essere, e dunque mi suscita il riso. Questo è quello che P definisce comico. Nel momento in cui la riflessione entra in gioco, essa suggerisce che ad esempio la signora fa così perché soffre della sua condizione e cerca di attirare a sè l'amore del marito più giovane; e pertanto si va oltre all'avvertimento del contrario, che diventa sentimento del contrario, ovvero l'umorismo. Non si ride più. Nella fine del brano parla anche del flusso continuo e di come l'uomo cerchi di fermarlo attraverso alle teorie e ai concetti (lanternoni), così da fissare la realtà e assegnarle delle forme ben definite. Queste forme però, in certi momenti, investite dal flusso, si disgregano-crollano. IL FU MATTIA PASCAL Mattia Pascal ha ereditato una grossa fortuna dal padre, che è però sotto il controllo del disonesto amministratore Batta Malagna, la cui figlia è stata messa incinta da MP, il quale è stato costretto a sposarla. Come lavoro, MP fa il bibliotecario in una vecchia biblioteca frequentata solo dai topi. Egli si propone di raccontare la sua storia, al fine di ammaestrare i potenziali lettori. Sin da subito si concentra sul proprio nome, affermando che alle domande della gente rispondeva sempre "io sono Mattia Pascal", risposta apparentemente insignificante, ma che per il protagonista significa molto, proprio perchè ha capito cosa si prova nel perdere l'identità (libertà non riuscita). Nel descrivere la propria condizione, MP appare come il classico personaggio pirandelliano: uomo della piccola borghesia che svolge un impiego insignificante e monotono, intrappolato sia dalla trappola della famiglia sia da quella del lavoro. Egli tenta di rompere questo meccanismo, tentando la fuga in America (la fuga è infatti uno dei pochi modi con cui ci si può liberare dalle trappole, e si tratta comunque, nel caso di MP, di una fuga dalle responsabilità). A questo punto avvengono due eventi, la vincita al casinò di Montecarlo e l'aver appreso che moglie e suocera lo danno per morto; che lo liberano rispettivamente dalle due trappole, famiglia e condizione sociale-lavoro. A questo punto MP, libero dalle trappole, potrebbe davvero vivere in libertà, seguendo il flusso vitale e abbandonandosi ad esso, non avendo più nè identità nè necessità di badare alla famiglia o ad un lavoro. Eppure, vivere senza forma, in una società che invece tende a cristallizzare questo continuo flusso vitale, significa vivere da "forestiere della vita", slegato da ogni relazione sociale. Infatti, è bene evidenziare che la libertà ottenuta non è stata conquistata da MP, ma anch'essa frutto di un atteggiamento passivo (l'aver accettato la notizia della sua morte senza voler cambiare i fatti). Anche per questo motivo, MP non comprende che l'aver abbandonato la sua identità gli ha finalmente garantito la libertà, e decide di riassumerne una, quella di Adriano Meis (inoltre cambia aspetto fisico e fa operazione a occhio strabico). Sotto nuovo nome, ben presto AM ricade in uno stato di vuoto e solitudine. Anche la nuova identità, come ogni forma cui l'uomo dà vita, è infatti un qualcosa di artificioso e che condanna le persone alla sofferenza e alla desolazione. Il grande errore di MP è dunque stato quello di non essere stato in grado di vivere senza forma rifiutando l'identità individuale, e aver preferito crearne una nuova, che gli porta comunque nuovi svantaggi (impossibilità stabilire legami). Non solo si è cristallizzato all'interno di una forma, ma ne ha creata una falsa, che è quindi ancora più limitante. Cerca di reimmergersi nel flusso vitale, trasferendosi a Roma dal borghese Paleari, filosofo. Sopporta quindi tutte le limitazioni della sua identità fittizia (non può stabilire legame con Adriana, non può far denuncia di essere stato derubato, accettare duello con pittore) e decide quindi di riappropriarsi di quella precedente, simulando un suicidio. Entra in gioco l'ultimo dei 3 narratori. Ciò gli provoca sensazione di euforia, e lo porta a volersi riappropriare anche della vita passata, anche delle sue trappole. Ritornato a Miragno, non viene però riconosciuto dalla famiglia (moglie si è sposata con l'amico Pomino) e non gli resta altro che il suo vecchio e triste impiego in biblioteca. MP però, non si sente più il MP di prima, e si limita a rendersi conto di non sapere chi è. Infatti, egli non si presenta più come all'inizio, ma con la locuzione "il Fu MP", che non va ad esprimere chi è, al massimo chi non è. Sa che non è più MP o AM, ma non sa chi è adesso. UNO, NESSUNO E CENTOMILA Si narra nuovamente del problema dell'identità. Vincenzo Moscarda rievoca la sua vita passata, in cui aveva preso consapevolezza del meccanismo delle forme e di come questo lo intrappolasse, in quanto ogni individuo, dal propio punto di vista, possedeva un'immagine ben definita di VM, ma che non corrispondeva a quella che lui assegnava a se stesso. Per distruggere le forme-identità, si finge folle, arrivando a donare i suoi averi per fondare un ospizio in cui si fa internare. Si tratta di un personaggio risuscito, e in un qualche modo vincente, a differenza di MP: VM infatti, ha volontariamente abbandonato la propria forma, in virtù di acquisire quella di folle, che gli permette di essere libero. Il folle può infatti seguire il flusso della vita, assumendo identità diverse, senza che nessuno si stupsica o gli attribuisca una qualche etichetta diversa da quella di pazzo. IL TEATRO Lo svuotamento del dramma borghese Quello che P fa è mettere in scena il classico dramma borghese, che narra della quotidianità della vita di questa classe sociale, ma lo fa "svuotandolo"; ovvero stravolgendone l'impianto e le vicende. Si mettono in scena eventi inverosimili e assurdi, illogici; i personaggi sono scissi e sdoppiati, non inquadrabili in una determinata forma; si ha la fusione del tragico e del comico, con un risuolato grottesco che mette in soggezione, in imbarazzo il pubblico. - ENRICO IV In una villa vive un uomo rinchiuso da 20 anni, divenuto pazzo a seguito di una caduta da cavallo, al punto da credere di essere l'imperatore Enrico IV (che stava inscenando da mascherato). Egli viene assecondato da coloro che lo circondando, che si vestono con gli abiti tipici e recitano la rispettiva parte. Per tentare di farlo rinsavire gli si vuole provocare uno shock: gli si vuole mostrare la figlia, Frida, della donna che un tempo egli amava, Matilde, vestita come la madre il giorno dell'accaduto. L'uomo rivela però di non essere mai impazzito realmente, ma di aver finto e di essersi ritirato per disgusto della società, avendo così rinunciato alla propria vita. Volendosene riappropriare, egli rivuole anche la fanciulla che un tempo amava, che però adesso è invecchiata, il che fa sì che Enrico IV desideri Fida, la figlia di Matilda, che assomiglia alla madre da giovane. A difesa della fanciulla interviene il rivale Belcredi, che viene ucciso da Enrico IV, nuovamente costretto a chiudersi nella sua pazzia. Egli è così divento un personaggio fisso e immutabile. Anche questo è un esempio di metateatro, poichè gli attori, non si ritrovano a recitare degli uomini che fingono di essere dei personaggi medievali, ma non recitano dei personaggi medievali. - SEI PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE Struttura e vicenda del dramma L'opera si presenta senza una scenografia, senza atti nè scene e con personaggi indefiniti. Lo spettatore, giungendo a teatro, si trova di fronte un sipario alzato, l'assenza di una scenografia e gli attori che provano una commedia, coordinati da un capocomico. La prima impressione è quindi quella di aver sbagliato giorno; lo spettatore viene quindi messo sin da subito in imbarazzo-disagio. Gli attori stanno iniziando le prove de "Il giuoco delle parti", quando irrompono sulla scena sei figure, che si presentano come "personaggi", i quali chiedendo al capocomico di poter mettere in scena il proprio dramma. Essi infatti, sono stati concepiti dalla mente di un autore, che si è poi rifiutato di scrivere il loro dramma; pertanto essi necessitano che ciò avvenga così da poterlo vivere. Dopo un primo momento di sconcerto, il capocomico e gli attori acconsentono di recitare il dramma dei personaggi, i quali lo narrano e al contempo lo rivivono, ridando vita ai conflitti, ai sentimenti e al dolore da esso scaturito. La vicenda (che è l'antefatto) vede un Padre, che a seguito della scoperta del tradimento della moglie (Madre), asseconda la donna e il Figlio a crearsi la nuova famiglia con l'amante, che era il segretario del padre. (Già questo è del tutto assurdo). La Madre ha così altri tre figli, e date le difficoltà economiche, fa prostituire la Figliastra. Nell'atelier dove ciò avviene si reca un giorno il Padre, che sta per avere una relazione incestuosa, ma viene fermato. Il "secondo atto" è caratterizzato dalla morte della Bambina e dal suicidio del Giovinetto, interpretai come finti dagli attori, ma indicati come reali dai Personaggi (continuo gioco R-F). Temi (rifiuto dramma borghese, impossibilità-incomunicabilità, R-F, vita-forma) Dalla rappresentazione, emergono due drammi. Il primo è dato dalle tristi vicende dei personaggi, che si concludono con la morte di due bambini. Eppure Pirandello non si pone come intenzione quella di rappresentare il tipico dramma borghese: egli parte dal teatro naturalista e lo “svuota", ovvero ne distrugge i capisaldi rendendolo grottesco e assurdo, per poi compiere un ulteriore passo avanti, quello dio inscenare l'irrappresentabilità del dramma borghese sulla scena, rifiutandolo del tutto. Questo è quindi il vero soggetto dell'opera, non le vicende dei personaggi. La visione di Pirandello, nell'esprimere l'impossibilità da parte degli autori di inscenare il dramma, esprime quanti una critica sia al teatro dell'epoca, sia alla rappresentazione teatrale in senso assoluto. Essa non può avvenire per due motivi, uno specifico di quest'opera (l'autore si era rifiutato di scrivere il dramma) e l'altro universale, che riguarda ogni rappresentazione: l'attore non può dar forma all'idea concepita da un autore, e nel caso dei sei personaggi, gli attori non possono rappresentare ciò che viene narrato dai Personaggi. Questo è dato da una sostanziale incomunicabilità / impossibilità di comunicare, in quanto ogni individuo possiede una visione soggettiva che si differenzia dalle altre, e non può assumere un punto di vista diverso dal proprio. (Tema pronunciato dal Padre nei confronti della Figliastra). Altro tema è il costante contrasto tra realtà e finzione. Gli attori, in quanto esseri umani in carne ed ossa, appaiono nella visione comune come "reali". Eppure, non possono essere definiti "veri", in quanto, in virtù del flusso vitale, essi mutano di continuo, assumendo forme differenti. D'altro canto, i personaggi, in quanto tali, sono nell'immaginario collettivo delle figure non reali, ma finte. Nonostante questo, essi sono però "veri", molto più veri attori, in quanto non mutano di continuo ma sono per definizione fissi. (Don Abbondio o Ulisse sono sempre loro). Quindi i personaggi sono qualcuno, mentre gli attori - e gli uomini - sono nessuno. L'altro conflitto è quello tra la vita e la forma, ovvero tra la vita che si muove in continuazione e la forma che è fissa e immutabile. Questa è la grande dannazione dei personaggi, che finiscono quindi per essere condannati ad essere in eterno la forma che gli è asssegnata (figliastra vendetta). LE NOVELLE Novelle per un anno (siciliane - piccolo borghesi) Scritte nei primi 15 anni del 900 in particolare, ma un pò in tutta la sua vita. Non è possibile individuare in esse un ordine determinato, ma si avverte una molteplicità di situazioni, in linea con la visione di un mondo non armonico ma disgregato, un io frantumato e l'idea vitalistica. Le vicende delle novelle siciliane si collocano nella Sicilia contadina, che a prima vista ricorda il verismo, ma da cui Pirandello si discosta (no intento di rappresentare meccanismi società), ma riscoperta dell'elemento mistico di questi luoghi, simile al decadentismo. Inoltre i personaggi sono spesso delle caricature grottesche e si assiste a situazioni paradossali, quasi assurde. Le novelle piccolo borghesi si concentrano invece sulla condizione meschina e grigia che questa classe vive, intrappolata nell'ambiente familiare e lavorativo, che mortificano l'uomo. Pirandello non propone vie d'uscita razionali, ma solamente in gesti di follia come quello di Belluca. - "IL TRENO HA FISCHIATO" La novella inizia in medias res, ed è narrata dal vicino di casa del sig. Belluca, che è stato ricoverato a causa di un episodio di follia. Egli riceve visite dai colleghi, che non si spiegano cosa gli sia accaduto e il perché del suo comportamento. Si ha quindi un'analessi, in cui il vicino inizia con il descrivere Belluca, che la sera prima si era ribellato al suo capoufficio. Egli infatti svolge "l'arida mansione del computista", ed è descritto come un impiegato mansueto, sottomesso, passivo e che vive senza ribellarsi e con i paraocchi. Intrappolato in quello che è quindi un lavoro degradante e insignificante, per magia un giorno si ribella alle insopportabili condizioni cui è costretto, generando lo stupore di tutti. Come prima cosa, era arrivato in ritardo al lavoro; poi, era stato tutto il giorno senza far nulla. Alla richiesta del suo capo ufficio, era stato in grado di rispondere solo "il treno ha fischiato”; da lì era iniziato il vero e proprio delirio di Belluca, che si era ribellato ai soprusi subiti. La narrazione prosegue quindi con la descrizione della vita di Belluca, per opera del vicino, con cui si risale alla spiegazione di tale delirio: Belluca, oltre alla trappola del lavoro, si trova imprigionato in quella che è la trappola familiare. Vive infatti in casa insieme alla moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche; le rispettive figlie vedove e i corrispettivi nipoti. Per poter sfamare tutte quelle bocche era anche costretto ad un secondo lavoro. Per tanti anni quindi, B si era dimenticato di cosa significasse vivere, poi, una notte, aveva sentito il fischio di un treno, che lo aveva riportato al mondo di cui aveva dimenticato l'esistenza. Un fatto apparentemente banale aveva quindi scatenato un'epifania, che aveva determinato la rottura del meccanismo alienante delle forme in cui Belluca era costretto da tempo. La follia, si tratta quindi, per P, di un modo per evadere e liberarsi dalle trappole; ma è un modo irrazionale e che ha una breve durata. Questa condizione di libertà terminerà presto, e Belluca dovrà nuovamente rientrare nelle forme in cui era costretto in precedenza. Belluca è quindi un personaggio che ha compreso il meccanismo delle trappole, (come tipico dei personaggi i di P) ed è riuscito ad evadere da esso, anche se per un periodo che sarà limitato. - "CIAULA SCOPRE LA LUNA" Ambientata in una zolfara, inizia con il sorvegliante Cacciagallina che annuncia ai minatori che avrebbero dovuto lavorare l'intera nottata. Tutti fuggono velocemente, ad eccezione di Zi Scarda, cieco da un occhio, e il suo "Caruso", Ciaula, su cui si sfoga. Si narra quindi della perdita da parte di ZS del figlio maggiore, causa lo scoppio di una mina (che è poi il motivo per cui Ciaula è impaurito dal buio). Si ha poi la descrizione di Ciaula, di cui vengono descritti gli abiti logori e l'aspetto fisico al limite del ridicolo: si tratta infatti di un personaggio al pari di un animale e assimilabile a Rosso Malpelo. Alla notizia di dover lavorare tutta la notte, egli non reagisce, ma acconsente in modo rassegnato. Ciò che lo preoccupa, è piuttosto il buio che incontrerà una volta uscito dalla cava, (il buio della cava invece lo conosce e gli dà sicurezza, tipo grembo materno) che lo terrorizza dal giorno in cui una mina era esplosa e aveva provocato la morte del figlio di Zi Scarda. Quel giorno si era infatti nascosto, e una volta uscito si era ritrovato nella notte vuota e minacciosa. Eppure questa notte succede invece qualcosa di inaspettato: mentre si sta dirigendo verso l'uscita, carico fino quasi allo sfinimento, intravede la luna, che come un occhio spunta in lontananza; a cui segue la rivelazione vera e propria della Luna, che lo fa "scoprire" e gli fa cessare la paura del buio. Il personaggio è assimilabile ai personaggi veristi di Verga, come RM, con cui Ciaula condivide la rassegnazione al sopruso e alla fatica, così come l'appartenenza ad una classe sociale infima. Tuttavia, RM è in grado di ribellarsi e ha modo di sfogarsi sull'amico Ranocchio e sul suo asino; inoltre egli è comunque intelligente e furbo, a differenza di Ciaula che è stolto e minorato. La vicenda di RM termina però in modo tragico, con la morte del bambino, mentre il finale della novella di P può considerarsi positivo. Differenza anche nello stile, no eclissi e regressione in P, che osserva e interviene nella scena, e conferisce alla novella un tono poetico (simile decadentismo): - brulichio stelle al di fuori della cava - Apparizione della luna in un "oceano di silenzio", come nell'assiuolo di Pascoli L'uscita di Ciaula dalla cava, che richiama la natalità (sbuca dal ventre della terra e piange) Simile al Verismo, ma no intento di riprodurre i meccanismi sociali caratterizzanti della classe operaia, bensì descrizione di esperienza irrazionale che consente al protagonista di "scoprirsi vivo" e non solo come uomo senza un fine e che conosce solo il lavoro. L'uscita dalla cava e la visione della Luna, che viene quasi divinizzata, è quindi il simbolo di una rinascita dall'aldilà, dato dalla miniera. Anche in questo caso, la trappola del lavoro in cui Ciaula è costretto viene rotta grazie ad un esperienza irrazionale, simile a quella di Belluca (nell'udire il treno), con differenza che Ciaula appare inconsapevole di essere riuscito ad evadere dalla trappola. L'evasione è obv momentanea. - "LA CARRIOLA" Il protagonista della novella, narratore in prima persona, è un uomo d'autorità: è avvocato, professore di diritto, marito, padre e cittadino, un uomo stimato e con molti obblighi e doveri a cui deve prestare attenzione continua. Confessa però che da una quindicina di giorni ha trovato il modo di concedersi una tregua, una "cosciente follia che per un attimo mi libera di tutto.", da tutti questi doveri e forme che non si sente proprie. "Il valore dell'atto ch'io compio può essere stimato ed apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d'un tratto s'è rivelata a me". Per poter spiegare il valore dell'atto racconta di ciò che è successo quindici giorni prima, quando d'un tratto, sul treno, vede un "brulichio" "brulichino d'una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto essere sua, non qua, non ora, ma là, in quell'infinita lontananza; d'una vita remota”. Questo brulichio di una vita migliore, libera e serena lo smuove: "mi ritrovai d'un tratto in tutt'altro animo, con un senso d'atroce afa della vita". In questo momento di totale smarrimento tutto appariva confuso pò e, una volta sceso dal treno e giunto alla porta di casa, la sensazione non scomparve ma aumenta e, come se si fosse visto dall'esterno, si era reso conto di essere cristallizzato in una forma che non sentiva propria e che gli era stata imposta dalla società. Una forma di cui però non poteva fare a meno per il bene degli altri d in particolare die suoi figli. È proprio osservando i figli che acquisisce consapevolezza e torna in sé. “Ora la mia tragedia è questa. Chi vive, quando vive, non si vede: vive.. Se uno può vedere la propria vita è segno che non la vive più: la subisce, la trascina." "E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono mai stato io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare." Trova quindi una soluzione per evadere, anche se per poco, dalle sue trappole: far fare la carriola alla sua vecchia cagna, che lo guarda con terrore. Un gesto folle che però gli dona gioia e gli consente "d'uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta". Tema: la società impone all'uomo delle "forme", che altro non sono che delle trappole da cui non riesce a liberarsi (trappola della famiglia, del lavoro → cristallizzato). Emerge quindi il tema della follia, vista come unico rimedio per fuggire dalla realtà. Tuttavia, in questo caso, il protagonista fugge solo per pochi attimi e anche durante quel tempo viene giudicato dalla cagnetta, simbolo della società, dalla quale non potrebbe mai farsi vedere in quello stato. Si tratta, però, di una soluzione temporanea e instabile a differenza della soluzione definitiva che troverà Vitangelo Moscarda in "Uno, nessuno e centomila", scegliendo la pazzia definitiva. Anche in questa novella, inoltre, emerge il tema del relativismo conoscitivo: ognuno comprende solo il proprio punto di vista, pertanto, nessuno riesce a cogliere la sofferenza provata dal protagonista → incomunicabilità tra gli uomini (l'uomo dal fiore in bocca). Struttura: struttura circolare con inizio, piuttosto confuso, in medias res. - "LA PATENTE" Il giudice D'Andrea è una persona molto ordinata e svolge con precisione e puntualità il suo lavoro. Non lascia mai in sospeso le pratiche; però questa volta ne ha una che giace da una settimana sulla scrivania perché si tratta di un caso che lo lascia molto perplesso. Un uomo, di nome Chiàrchiaro, è considerato un iettatore da tutto il paese. Un giorno, vede due giovani che, nei suoi confronti fanno, un atto osceno di scongiuro per proteggersi dalla iella; per questo l'uomo ha sporto querela per diffamazione nei loro confronti. Il giudice D'Andrea è convinto che non sarà possibile eliminare la superstizione che circonda Chiàrchiaro e siccome prevede che la causa sarà persa, ritiene che sia più opportuno ritirare la querela, anche perché il paese non aspetta altro di vedere l'uomo condannato. Dopo una lunga riflessione, il giudice decide di far chiamare il querelante nel suo ufficio per convincerlo a ritirare la querela, perché alla fine lo avrebbe penalizzato ancor di più, dato che il giudice non avrebbe mai potuto incriminare i due ragazzi querelati per un fatto così banale e alla fine la fama di iettatore di Chiàrchiaro si sarebbe ancor di più diffusa, ottenendo così l'effetto contrario di quello desiderato. Quando arriva nell'ufficio, Chiàrchiaro si presenta con il tipico aspetto di un iettatore e ammette addirittura di esserlo; il giudice meravigliato gli chiede perché inizialmente abbia querelato i ragazzi che lo ritenevano un portatore di sfortuna, se poi egli si ritiene di esserlo; nella risposta Chiàrchiaro chiarisce la sua intenzione: chiede al giudice di istruire al più presto il processo: perdendo la causa, egli sarà considerato ufficialmente uno portatore di sfortuna e chiederà così che gli sia rilasciata la patente di iettatore. In questo modo potrà guadagnarsi da vivere: si metterà davanti ai negozi, nelle prossimità delle case da gioco, vicino alle industrie i cui il proprietari lo pagheranno perché se ne vada; così, egli potrà riscattarsi anche dalla sottile malvagità delle gente che fino ad ora lo ha sempre scansato. Il tema è quello dell'idea che gli altri si fanno di noi, cosa che ci costringe ad assumere una determinata forma. Agli occhi di tutti, Chiàrchiaro, è etichettato come un portatore di sfortuna. Egli diventa vittima della "forma" che gli altri gli attribuiscono e che lo porta alla rovina e all'emarginazione (è stato licenziato per questo e per lo stesso motivo le due figlie non riescono a trovare marito). Egli è come prigioniero di tale forma e qualsiasi lotta per uscirne sarebbe inutile. Allora, decide di sfruttare a proprio vantaggio tale forma (o maschera) che gli altri gli impongono, e ne accentua per questo le conseguenze. In altre parole: se gli altri ritengono che la sua presenza porti sfortuna, allora egli sarà davvero un iettatore formalmente riconosciuto perché in possesso della relativa patente. La novella è un chiara applicazione della poetica dell'umorismo; infatti quando Chiàrchiaro si presenta nello studio del giudice ha la barba lunga, la faccia da vero iettatore, un fare minaccioso, un paio di occhiali stravaganti e indossa un mantello sporco. Il suo aspetto suscita l'ilarità e scatta l'avvertimento del contrario. Quando però si capisce il vero motivo per il quale egli si sia conciato così, allora scatta il sentimento del contrario e il riso acquista un aspetto amaro perché si capiscono le vere motivazioni della sofferenza che sta dietro alla forma di cui egli è prigioniero. Dall'ilarità iniziale, si passa ad un riso amaro quindi alla compassione che si concretizza con l'abbraccio del giudice che ha capito molto bene il dolore del cliente l'assurdità.