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1/11/2022
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Il pensiero e il confronto con Machiavelli La grande, infamante accusa che il Guicciardini muove al Machiavelli è di essere un "utopista" invece che un "realista". Sul piano teorico, il confronto con le posizioni di Machiavelli è condotto soprattutto nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio, scritte intorno al 1529 in due libri e rimaste incompiute. In esse Guicciardini sottopone ad analisi minuta singole affermazioni o particolari nuclei teorici di Machiavelli. Si tratta di riflessioni volte piuttosto a criticare e decostruire il pensiero di Machiavelli che ad avanzare proposte alternative o a costruire un diverso sistema concettuale. Nonostante la comune visione laica, fondata sulla "realtà effettuale", mentre Machiavelli, in una prospettiva classicistica, tende a "parlare generalmente" e a stabilire regole universali basandosi anche sulla lezione della storia, Guicciardini rimane ancorato a un empirismo assoluto e radicale: egli crede solo all'esperienza e alla necessità di giudicare caso per caso, in quanto ogni evento o fenomeno storico è unico e irripetibile e non può quindi essere analizzato a partire da categorie astratte e universali. Machiavelli, inoltre, pur consapevole del limite opposto dalla Fortuna all'agire umano, crede tuttavia nella storia come costruzione razionale e umana e trova nella virtù il fondamento e la legittimazione della libertà dell'uomo e della sua capacità attiva ed energica di...
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costruire e modificare la storia secondo i suoi fini e i suoi progetti. La meditazione del Guicciardini parte, invece, dal riconoscimento amaro dell'incapacità, da parte del singolo, di riuscire a modificare il corso degli eventi e di ridurli in schemi razionali. C'è in lui la coscienza di un'estrema complessità e irrazionalità del reale, che non si lascia esaurire da nessuna formula. Vano è dunque pretendere di stabilire norme generali d'azione, dato che una realtà sempre imprevedibile sconvolge gli schemi in cui vorremmo costringerla. Alla virtù del Machiavelli egli sostituisce pertanto la "discrezione", che è la capacità di analizzare e comprendere i fatti singoli nelle loro infinite sfumature, per poter inserire la propria azione nel loro corso tumultuoso, senza venirne travolti, salvaguardando il proprio "particulare", cioè il proprio interesse, i propri scopi e progetti. Si può in certo modo affermare che, nel suo pensiero, la Fortuna vinca la virtù, e la fiducia rinascimentale nella capacità costruttiva dell'uomo nel mondo appaia ormai in declino. Questo spiega perché Guicciardini si dedichi esclusivamente alla storiografia, intesa come ricostruzione e comprensione a posteriori degli eventi e delle loro cause, rifiutando la forma del trattato politico, inteso, come in Machiavelli, come codificazione di un sistema organico di leggi e norme universali finalizzate a guidare e sostenere l'azione politica di costruzione della storia. Anche il Guicciardini, come il Machiavelli, crede che l'uomo sia un fenomeno della natura soggetto a leggi fisse ed immutabili, ma, a differenza del grande amico, ritiene che l'uomo sia naturalmente portato più al bene che al male e se fa nella realtà più spesso il male che il bene, ciò è dovuto al fatto che le tentazioni sono tante e la coscienza umana debole, ma ancora di più al fatto che proprio facendo il male l'uomo riesce più facilmente e più spesso a realizzare il proprio tornaconto. Questo tornaconto personale, che il Guicciardini chiama "particulare", è in effetti la molla che fa scattare tutte le azioni umane: esso il più delle volte corrisponde al benessere materiale, al potere, ma può anche nobilitarsi corrispondendo all'interesse dello Stato, alla gloria, alla fama. Per realizzare il "particulare", sia in senso politico che in senso domestico, non è possibile rifarsi alla storia e trarre insegnamenti da fatti già accaduti per risolvere i fatti del presente, perché nella storia i fatti non si ripetono mai: anche quando una circostanza presente sembra riflettere un episodio della storia passata, in effetti la situazione attuale è ben diversa, diversi essendo gli uomini che si trovano ad affrontarla. Quindi non c'è da sperare in una scienza della politica, ma contare esclusivamente sulla propria "discrezione", cioè una qualità innata nell'uomo, ma che solo pochi posseggono in misura rilevante, che fornisce la capacità di intuire di volta in volta la scelta da operare, la strada da percorrere, per realizzare il proprio vantaggio e difendersi dai pericoli della vita. Però se la storia non può darci leggi universali di comportamento, la nostra esperienza personale può bene affinare in noi la "discrezione". E l'uomo deve attenersi esclusivamente al suo rapporto contingente con la realtà, perché è vana e semplice esercitazione mentale il volersi interessare di cose soprannaturali ed invisibili. E nel rispetto di questa considerazione, egli condivide col Machiavelli la necessità di badare solo alla "verità effettuale", ma della situazione italiana contemporanea dà una valutazione diversa: per luì non è possibile fare dell'Italia di quel tempo uno stato unitario, e propende invece per una confederazione di piccoli stati, possibilmente retti a repubblica ma governati comunque da "savi". Egli è contrario al potere temporale dei papi (anche se li servì per proprio tornaconto) e condivide col Machiavelli il desiderio di vedere l'Italia liberata dagli stranieri. Significativo a tal riguardo è il seguente pensiero del Guicciardini: "Tre cose desidero vedere innanzi della mia morte; ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti e barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi preti". Non è un caso che il Guicciardini - a differenza del Machiavelli - fece una notevole carriera politica. Ma chi è stato più "premiato" dalla storia? Chi dei due ha potuto beneficiare di una maggiore realizzazione storica dei propri ideali? Si può forse dire che il Guicciardini fosse più "realista" del Machiavelli quando pensava di potersi opporre, con le sole risorse del papato o di una Lega provvisoria dei maggiori Stati italiani, alla potenza di nazioni come la Spagna o la Francia? Era forse più realista del Machiavelli quando rifiutava l'idea di costituire un esercito non mercenario? Nella fattispecie la politica del Guicciardini ha avuto più successo di quella del Machiavelli, ma non si può dire che abbia avuto anche più ragioni. L'ideale del Machiavelli, relativo all'unificazione nazionale, non è forse fallito anche per l'opposizione di politici miopi come il Guicciardini? Chi ricordiamo oggi più volentieri: il passionale lungimirante Machiavelli o il freddo calcolatore Guicciardini? La prospettiva di lungo periodo ha dato ragione al Machiavelli, anche se il rifiuto ostinato, trisecolare, di accettare il suo ideale, ha fatto regredire così tanto l'Italia, rispetto ad altre nazioni europee, che ancora oggi ne risentiamo. Se poi volessimo fare i sofisti, dovremmo mettere in discussione anche il valore contestuale del presunto "realismo" del Guicciardini, quello che lui praticava nell'ambito ristretto delle circostanze particolari, dei casi specifici. Egli infatti s'è sempre comportato come un aristocratico, lontano dalle masse popolari: ad es., quando ha cercato di spiegarsi i motivi della profonda crisi di Firenze, ne ha attribuita la responsabilità ai grandi personaggi della politica, alle rivendicazioni dei ceti subalterni, alla sfortuna... E' forse questo il vero "realismo"? Si può essere allo stesso tempo "realisti" e "opportunisti"? L'opportunismo di chi pensa solo al "particulare" è forse una garanzia di vero successo? Il suo unico trattato teorico-politico è il Dialogo del reggimento di Firenze, composto tra il '21 e il '25. In esso Guicciardini auspica per Firenze un governo "misto", sul modello di quello oligarchico-veneziano, che superi i difetti della signoria e del regime repubblicano. Prevede due magistrature formate dai rappresentanti delle famiglie più illustri e più ricche, aventi al vertice un gonfaloniere nominato a vita. L'aristocrazia che Guicciardini difendeva era quel ceto di magnati, astuti e intelligenti, che avevano saputo assumere il controllo dei traffici commerciali e delle industrie, alleandosi con la nuova borghesia mercantile e finanziaria. Per lui questa classe era la sola ad essere esperta nell'arte di governare, sia a livello politico- amministrativo che militare. Guicciardini è un politico conservatore: guarda con sospetto e diffidenza i tumulti popolari (ad es. quello dei Ciompi), l'assolutismo del principe e ritiene irrealizzabile l'idea di uno Stato nazionale. La sua preoccupazione principale è quella di conservare i vecchi istituti comunali e corporativi. I Ricordi politici e civili: sono oltre 400 pensieri di natura politica e morale, di varia lunghezza, composti tra il '25 e il '30, destinati ad esser letti dai familiari e dai discendenti (pubblicati, come molte altre sue opere, solo verso la metà dell'Ottocento). In essi Guicciardini ribadisce il principio rinascimentale dell'autonomia della politica, totalmente separata dalla religione e dalla morale; sostiene che la storia è un prodotto degli uomini, non della provvidenza, anche se la fortuna ha una parte rilevante nelle vicende degli uomini. Gli uomini che fanno la storia sono quelli che hanno intelligenza, forza, astuzia, abilità, autorità. Il popolo non fa "storia". Gli avvenimenti storici sono indecifrabili se riferiti a uno schema teorico predefinito col quale li si vorrebbe interpretare. Nella storia le eccezioni, le circostanze fortuite, particolari, i necessari "distinguo" rendono impossibile una comprensione globale o generale della realtà. I fatti vanno compresi nelle loro circostanze particolari, caso per caso. La virtù che il politico deve possedere, a tale scopo, è la discrezione, che è la capacità di discernere con acume, sulla base dell'esperienza, i singoli fatti (prevale dunque l'analisi sulla sintesi). In questo senso il Guicciardini si oppone al Machiavelli: non accetta il richiamo costante agli antichi (perché secondo lui il passato non può aiutarci a vivere il presente, non essendoci una concatenazione logica dei fatti storici), né apprezza lo sforzo di trarre dalla storia delle leggi universali. I fatti non possono essere ricondotti entro una visione unitaria, né si può risalire dal particolare al generale: il futuro resta imprevedibile. Di qui il forte pessimismo intellettuale del Guicciardini, che si manifesta anche nella concezione dell'uomo: a suo giudizio, infatti, la natura umana è fondamentalmente incline al male, almeno nel momento stesso in cui accetta di vivere in società. E questa inclinazione è immutabile. Alla politica idealista e di ampio respiro del Machiavelli, Guicciardini oppone una politica che lui definiva "realista" ma che sarebbe meglio definire "opportunista": la politica di quel diplomatico, esperto nell'arte di negoziare e consigliare, molto attento al proprio "particulare", cioè alla propria dignità, reputazione e carriera politica (ad es. in religione egli avrebbe voluto farsi luterano, ma restò cattolico; odiava il clericalismo, ma si era adattato a servire il papato). Per "particulare" non si deve intendere il tornaconto materiale. Nelle Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1530), Guicciardini contesta che l'unificazione nazionale sia un obiettivo preferibile all'equilibrio tra le varie entità politiche esistenti e sostiene invece che l'autonomo sviluppo delle varie città e signorie, oltre ad essere causa di benessere economico, corrisponde meglio alle antiche consuetudini degli italiani. L'opera più importante, sul piano storiografico, è la Storia d'Italia, in 20 volumi, composta tra il '36 e il '39. E' il capolavoro di tutta la storiografia del '500. Tratta gli avvenimenti che vanno dalla discesa di Carlo VIII alla morte di Clemente VII. E' l'unica ch'egli compose espressamente per la pubblicazione. Guicciardini è il primo che raccoglie in un quadro le vicende di tutta Italia, ed è anche il primo che pone a fondamento della narrazione documenti autentici e originali: di qui la sua pretesa imparzialità. La differenza principale fra la sua storiografia e quella del Machiavelli la si riscontra anche nel giudizio che dà della Repubblica fiorentina. Mentre il Machiavelli aveva ricercato nelle passate vicende della città le prove della fragilità del piccolo stato corporativo rispetto alle nazioni europee emergenti; il Guicciardini invece addebitava il declino della città alle passioni e agli errori di singoli e famosi personaggi, vissuti negli ultimi 40 anni, oppure alle pretese delle classi più popolari o addirittura all'influsso negativo della fortuna.