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Giovanni Pascoli

8/3/2023

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Giovanni Pascoli
LA VITA
La giovinezza travagliata
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, da una famig

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Italiano Giovanni Pascoli LA VITA La giovinezza travagliata Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia della piccola borghesia rurale, di condizione abbastanza agiata. Era una tipica famiglia patriarcale, molto numerosa. La vita sostanzialmente serena di questo nucleo familiare venne però sconvolta da una tragedia, destinata a segnare profondamente l'esistenza del poeta: il 10 agosto 1867, mentre tornava a casa dal mercato di Cesena, Ruggero Pascoli fu ucciso a fucilate, probabilmente da un rivale che aspirava a prendere il suo posto di amministratore. Sicari e mandanti non furono però mai individuati e ciò diede al giovane Pascoli il senso di un'ingiustizia bruciante. La morte del padre creò difficoltà economiche alla famiglia, che dovette lasciare la tenuta, trasferirsi a San Mauro e in seguito a Rimini, dove il figlio maggiore aveva trovato lavoro, assumendo il ruolo paterno. Al primo lutto in un breve giro di anni ne seguirono altri, in una successione impressionante: nel 1868 morirono la madre e la sorella maggiore, nel 1871 il fratello Luigi, nel 1876 Giacomo. Giovanni sin dal 1862 era entrato coi fratelli Giacomo e Luigi nel collegio degli Scolopi ad Urbino, dove ricevette una rigorosa formazione classica, che costituì la base essenziale della sua cultura. Nel 1871, per le ristrettezze della famiglia, dovette lasciare il collegio, ma,...

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Didascalia alternativa:

grazie alla generosità di uno dei suoi professori, poté proseguire gli studi a Firenze, dove terminò il liceo. Nel 1873, grazie al brillante esito di un esame, ottenne una borsa di studio presso l'Università di Bologna, dove frequentò la Facoltà di Lettere. Negli anni universitari Pascoli subì il fascino dell'ideologia socialista, che proprio allora si andava diffondendo. Partecipò a manifestazioni contro il governo, fu arrestato nel 1879 e dovette trascorrere alcuni mesi in carcere. L'esperienza fu però per lui traumatica e determinò il suo definitivo distacco dalla politica militante. Restò fedele anche in seguito all'ideale socialista, ma di un socialismo vagamente umanitario, che propugnava la bontà e la fraternità fra gli uomini. Ripresi con impegno gli studi, si laureò nel 1882. Iniziò subito dopo la carriera di insegnante liceale. Qui chiamò a vivere con sé le due sorelle, Ida e Mariù, ricostituendo così idealmente quel <<nido>> familiare che i lutti avevano distrutto. Nel 1887, sempre con le sorelle, passò ad insegnare a Livorno, dove rimase sino al 1895. Il «nido» familiare La chiusura gelosa nel «nido» familiare e l'attaccamento morboso alle sorelle rivelano la fragilità della struttura psicologica del poeta, che, fissato dai traumi subiti ad una condizione infantile, cerca entro le pareti del «nido» la protezione da un mondo esterno, quello degli adulti, che gli appare minaccioso ed irto di insidie. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel «nido», riproponendo il passato di lutti e di dolori, inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del <<nido»>. Questa serie di legami inibisce anche il rapporto con l'"altro" per eccellenza, quel rapporto in cui si misura la maturità e la pienezza della persona: non vi sono relazioni amorose nell'esperienza del poeta, che conduce una vita forzatamente casta. C'è in lui lo struggente desiderio di un vero <<nido»>, in cui esercitare un'autentica funzione di padre, ma il legame ossessivo con il <<nido>> infantile spezzato gli rende impossibile la realizzazione del sogno. La vita amorosa ai suoi occhi ha un fascino torbido, è qualcosa di proibito e di misterioso, da contemplare da lontano, con palpiti e tremori. Le esigenze affettive del poeta sono, a livello conscio, interamente soddisfatte dal rapporto sublimato con le sorelle, che rivestono un'evidente funzione materna. Si può capire allora perché il matrimonio di Ida, nel 1895, fu sentito da Pascoli come un tradimento, una profanazione della sacralità del «nido», e determinò in lui una reazione spropositata, patologica, con vere manifestazioni depressive. Questa complessa e torbida situazione affettiva del poeta è una premessa indispensabile per penetrare nel mondo della sua poesia, perché costituisce il punto d'avvio della sua esperienza fantastica, il materiale su cui egli lavora. Ed è una chiave necessaria per cogliere il carattere turbato, tormentato, morboso della poesia di Pascoli, carattere che si cela dietro l'apparenza dell'innocenza e del candore fanciulleschi, della celebrazione delle piccole cose, delle realtà più semplici e umili: senza tener presente quel punto di partenza si rischia di scambiare la sua poesia per un modesto idillio, senza scorgere la sua vera, inquietante e proprio per questo affascinante sostanza. L'insegnamento universitario e la poesia Nel 1895, dopo il matrimonio di Ida, Pascoli prese in affitto una casa nella campagna lucchese. Qui, con la fedele sorella Mariù, trascorreva lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina che detestava e di cui aveva orrore, a contatto con il mondo della campagna che ai suoi occhi costituiva un Eden di serenità e pace, di sentimenti semplici e puri. La sua vita era quella appartata, senza scosse e senza grandi avvenimenti esterni, del professore, tutto chiuso nella cerchia dei suoi studi, della sua poesia, degli affetti familiari. Una vita esteriormente serena, ma in realtà turbata nell'intimo da oscure angosce e paure, paure per l'addensarsi di incombenti cataclismi storici, minacciati dalla violenza latente nella società del tempo, angosce per la presenza ossessiva della morte. Intanto, nel 1895, Pascoli aveva ottenuto la cattedra di Grammatica greca e latina all'Università di Bologna, poi di Letteratura latina all'Università di Messina, dove insegnò sino al 1903. Passò quindi a Pisa ed infine dal 1905 subentrò al suo maestro Carducci nella cattedra di Letteratura italiana a Bologna. All'inizio degli anni Novanta aveva pubblicato una prima raccolta di liriche, Myricae (1891), poi negli anni seguenti diverse poesie in varie e importanti riviste. Myricae si ampliava sempre più ad ogni nuova edizione. Nel 1897 uscirono i Poemetti, poi arricchiti in successive ristampe, nel 1903 i Canti di Castelvecchio, nel 1904 i Poemi conviviali. La sua fama di poeta si allargava e consolidava. Dal 1892 per ben dodici anni vinse la medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam, consacrandosi così anche squisito poeta latino, capace di dare forza espressiva originale e moderna alla lingua antica. Negli ultimi anni volle gareggiare col maestro Carducci e col <<fratello minore e maggiore>> d'Annunzio nella funzione di poeta civile. Al poeta schivo, chiuso nel suo limitato ambito domestico e provinciale, inteso a celebrare il valore delle realtà più umili e dimesse, si affiancò così il letterato ufficiale, che si assunse il compito di diffondere ideologie e miti. Oltre che con le sue poesie Pascoli espletò questo suo compito con una serie di discorsi pubblici, tra i quali è rimasto famoso La grande proletaria si è mossa, tenuto il 26 novembre 1911 per celebrare la guerra coloniale di Libia. Il poeta però era ormai minato dal male, un cancro allo stomaco. Si trasferì a Bologna per le cure, ma si spense poco dopo, il 6 aprile 1912. LA VISIONE DEL MONDO La crisi della matrice positivistica La formazione di Pascoli fu essenzialmente positivistica, come era inevitabile, dato il clima culturale che dominava negli anni in cui egli compì i suoi studi liceali e universitari; ma impregnati di cultura positivistica restavano anche gli ambienti accademici in cui lo scrittore operò in seguito. Tale matrice è ravvisabile nell'ossessiva precisione con cui, nei suoi versi, egli usa la nomenclatura ornitologica e botanica, e di impianto positivistico sono spesso le fonti da cui trae le osservazioni sulla vita degli uccelli, protagonisti di tanti suoi componimenti poetici; così come da letture di testi di astronomia ispirati alle cognizioni scientifiche del tempo scaturiscono i temi astrali che occupano un posto rilevante nella sua poesia. Ma in Pascoli si riflette quella crisi della scienza che caratterizza la cultura di fine secolo, segnata dall'esaurirsi del Positivismo e dall'affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche. Anche in lui insorge una sfiducia nella scienza come strumento di conoscenza e di ordinamento del mondo: anche per lui, al di là dei confini limitati raggiunti dall'indagine scientifica, si apre l'ignoto, il mistero, l'inconoscibile, verso cui l'anima si protende ansiosa, tesa a captare i messaggi enigmatici che ne provengono, non traducibili in nessun sistema logicamente codificato. Questa tensione verso ciò che trascende il dato sensibile in Pascoli non si concreta in una fede religiosa positiva. Di Dio vi è in lui nostalgia, mai possesso. Il fascino su di lui esercitato dal cristianesimo non attinge mai la sfera teologica, della verità rivelata, ma resta nei limiti del messaggio morale di fraternità e mansuetudine evangelica, come vedremo in seguito. Il mondo, nella visione pascoliana, appare frantumato, disgregato. Non esistono neppure gerarchie d'ordine fra gli oggetti: ciò che è piccolo si mescola a ciò che è grande, il minimo, apparentemente trascurabile particolare può essere ingigantito come attraverso una lente d'ingrandimento sino ad occupare tutto il quadro, e ciò che è grande può essere rimpicciolito, miniaturizzato, come se fosse visto con il cannocchiale alla rovescia. Tutto ciò ha riflessi di grande portata sulla costruzione formale dei testi, sulle strutture logico-sintattiche e ritmiche, sulle parole scelte per designare gli oggetti. I simboli Gli oggetti materiali hanno un rilievo fortissimo nella poesia pascoliana, ma ciò non significa affatto che vi sia in essa un'adesione di tipo veristico all'oggettività del dato: i particolari fisici, sensibili sono filtrati attraverso la peculiare visione soggettiva del poeta e in tal modo si caricano di valenze allusive e simboliche, rimandano sempre a qualcosa che è al di là di essi, all'ignoto di cui sono come messaggi misteriosi e affascinanti. Anche la precisione botanica e ornitologica con cui Pascoli designa fiori, piante, varietà di uccelli, assume ben diverse valenze: il termine preciso diviene come la formula magica che permette di andare al cuore della realtà, di attingere all'essenza segreta delle cose. Dare il nome alle cose è come scoprirle per la prima volta, con occhi vergini e stupiti, possederle intimamente, arrivare ad un'immedesimazione profonda con esse. Perciò, data questa soggettivazione del reale, alla nettezza vivida delle impressioni e alla precisione scientifica della terminologia botanica ed ornitologica può accostarsi senza stridori né contraddizioni una percezione visionaria, onirica: il mondo è allora visto attraverso il velo del sogno e perde ogni consistenza oggettiva, le cose sfumano le une nelle altre, in un gioco di metamorfosi tra apparenze labili e illusorie. Si instaurano così legami segreti fra le cose, che solo abbandonando le convenzioni della visione corrente, logica e positiva, possono essere colti. La conoscenza del mondo avviene attraverso strumenti interpretativi non razionali, che trasportano di colpo, senza seguire tutti i passaggi del ragionamento logico, nel cuore profondo della realtà. Tra io e mondo esterno, tra soggetto e oggetto non sussiste quindi per Pascoli vera distinzione. La sfera dell'io si confonde con quella della realtà oggettiva, le cose acquistano una fisionomia antropomorfizzata, si caricano di significati umani. Come si vede, la visione del mondo pascoliana si colloca a buon diritto entro le coordinate della cultura decadente e presenta cospicue affinità, al di là delle difformità di tono, con la visione dannunziana. LA POETICA Il fanciullino Da questa visione del mondo scaturisce con perfetta coerenza la poetica pascoliana, che trova la sua formulazione più compiuta e sistematica nell'ampio saggio Il fanciullino, pubblicato nel 1897. L'idea centrale è che il poeta co col fanciullo che sopravvive al fondo di ogni uomo: un fanciullo che vede tutte le cose «come per la prima volta», con ingenuo stupore e meraviglia, come dovette vederle il primo uomo all'alba della creazione. Anche il poeta <<fanciullino»> dà il nome alle cose e, trovandosi come in presenza del «mondo novello», deve usare una «novella parola», un linguaggio che si sottragga ai meccanismi mortificanti della comunicazione abituale e sappia andare all'intimo delle cose, scoprirle nella loro freschezza originaria, rendere il «sorriso» e la <<lacrima>> che c'è in ognuna di esse. Dietro questa metafora del «fanciullino» è facile scorgere una concezione della poesia come conoscenza prerazionale e immaginosa, concezione che ha le radici ancora nel terreno romantico, ma che Pascoli piega ormai in direzione decisamente decadente. Grazie al suo modo alogico di vedere le cose, il poeta-fanciullo ci fa sprofondare immediatamente nell'abisso della verità>>. L'atteggiamento irrazionale e intuitivo consente quindi una conoscenza profonda della realtà, permette di cogliere direttamente l'essenza segreta delle cose, senza mediazioni. Non solo, ma il <<fanciullino» scopre nelle cose <<le somiglianze e le relazioni più ingegnose», scopre cioè quella trama di rispondenze misteriose tra le presenze del reale che le unisce come in una rete di simboli e che sfugge alla percezione abituale, prigioniera delle sue stanche e trite convenzioni. Il poeta, in una parola, appare come un "veggente”, dotato di una vista più acuta di quella degli uomini comuni, colui che per un arcano privilegio può spingere lo sguardo oltre le apparenze sensibili, attingere all'ignoto, esplorare il mistero. Si vede chiaramente come anche la poetica pascoliana rientri in un ambito decadente. La poesia "pura" In questo quadro culturale si colloca altresì la concezione della poesia "pura": per Pascoli la poesia non deve avere fini estrinseci, pratici; il poeta canta solo per cantare, non vuole assumere il ruolo di <<consigliatore» e di «ammonitore»>, non si propone obiettivi civili, morali, pedagogici, propagandistici. Tuttavia, precisa Pascoli, la poesia, proprio in quanto poesia <<senza aggettivi»>, poesia “pura”, assolutamente spontanea e disinteressata, può ottenere «effetti di suprema utilità morale e sociale»>. Il sentimento poetico, dando voce al «fanciullino» che è in noi, sopisce gli odi e gli impulsi violenti che sono propri degli uomini, induce alla bontà, all'amore, alla fratellanza; non solo, ma placa quel desiderio di accrescere i propri possessi che spinge gli uomini a sopraffarsi a vicenda. Nella poesia "pura" del <<fanciullino» per Pascoli è quindi implicito un messaggio sociale, un'utopia umanitaria che invita all'affratellamento di tutti gli uomini, al di là delle barriere di classe e di nazione che li separano e li contrappongono gli uni agli altri. Questo rifiuto della «<lotta tra le classi» si trasferisce al livello dello stile. Pascoli ripudia il principio aristocratico del classicismo che esige una rigorosa separazione tra ciò che è alto e ciò che è basso ed accetta solo la prima categoria di oggetti nel campo selezionatissimo della poesia. Ricchi di poesia per lui non sono solo gli argomenti elevati e sublimi, ma anche quelli più umili e dimessi. La poesia è anche nelle piccole cose, che hanno un loro "sublime" particolare, una dignità non minore di quelle auliche. In tal modo Pascoli porta alle estreme conseguenze la rivoluzione romantica, che estendeva il <<diritto di cittadinanza a tutti gli elementi della realtà». Tra oggetti aulici e umili, e tra le parole che li esprimono, non vi è più conflitto ed esclusione, ma vi può essere pacifica convivenza. A questo principio Pascoli si attiene fedelmente nella sua attività poetica, proponendosi sia come cantore delle realtà umili e dimesse, scoprendo il loro valore segreto ed elevandole alla dignità che loro compete, sia come celebratore delle glorie nazionali ed evocatore dei miti e degli eroi classici. L'IDEOLOGIA POLITICA L'adesione al socialismo Dai princìpi letterari di Pascoli affiora una concezione di tipo socialista, di un socialismo umanitario e utopico, che affida alla poesia la missione di diffondere l'amore e la fratellanza. Durante gli anni universitari, il giovane Pascoli subì l'influenza delle ideologie anarco-socialiste. L'adesione all'anarchismo e al socialismo era un fenomeno diffuso tra gli intellettuali piccolo borghesi del tempo. L'insofferenza ribelle nei confronti delle convenzioni e la protesta contro le ingiustizie avevano una matrice culturale, ma avevano anche più concrete motivazioni sociali, quali le inquietudini di un gruppo che si sentiva minacciato nella sua identità dall'avanzata della civiltà industriale moderna, che toglieva prestigio alla tradizionale cultura umanistica, privilegiando nuove competenze e nuovi saperi, scientifici e tecnologici; a ciò si univa il risentimento e la frustrazione per i processi di declassazione a cui il ceto medio tradizionale era sottoposto dall'organizzazione moderna della produzione, processi da cui gli intellettuali erano particolarmente colpiti. In questo quadro sociologico rientrava perfettamente la figura del giovane studente Giovanni Pascoli, proveniente dalla piccola borghesia rurale, declassato e impoverito, che quindi trasformava in rabbia e in impulsi ribelli contro la società l'emarginazione di cui era vittima. Pascoli sentiva soprattutto gravare su di sé il peso di un'ingiustizia immedicabile, l'uccisione del padre, lo smembramento della famiglia, i lutti, la povertà: tutto ciò gli sembrava l'effetto di un meccanismo sociale perverso, contro cui era necessario lottare. Aderì quindi all'Internazionale socialista. Il movimento anarco-socialista, ai suoi primordi, non aveva basi ideologiche rigorosamente definite, il suo impegno politico obbediva più al «cuore»> che alla <<mente». Di tal genere fu anche l'adesione di Pascoli. Arrestato per una manifestazione antigovernativa, come si è accennato, il giovane studente venne tenuto mesi in carcere e processato. Fu per lui un'esperienza terribile: quando uscì assolto dal processo, abbandonò definitivamente ogni forma di militanza attiva. Dal socialismo alla fede umanitaria Ma questo distacco deve essere collocato nell'ambito più vasto di una generale crisi della sinistra. Il 1879, l'anno del processo subito da Pascoli, fu anche l'anno di una svolta capitale del socialismo romagnolo che abbandonò il pensiero utopico di Bakunin per accostarsi a quello di Marx. Il socialismo marxista si fondava essenzialmente sul concetto di lotta di classe, sull'inconciliabilità di interessi fra capitale e lavoro e sullo scontro violento, rivoluzionario che doveva opporli, sino al trionfo di una delle due forze, il proletariato, che avrebbe cancellato l'altra e tutto il sistema economico e sociale che su di essa si reggeva. Era questo un principio che ripugnava alle tendenze più profonde dell'animo di Pascoli, il quale, nella sua prospettiva utopica, idealistica, intrisa di pietà evangelica, non poteva accettare conflitti violenti, ma sognava un affratellamento di tutti gli uomini, di tutte le classi sociali, come si è visto nel Fanciullino. Il poeta non rinnegò gli ideali socialisti, ma, rifiutando recisamente la «gelida»> dottrina marxista, li trasformò in una generica fede umanitaria, nutrita di elementi provenienti dal cristianesimo primitivo... Socialismo per lui era un appello alla bontà, all'amore, alla fraternità, alla solidarietà fra gli uomini, voleva dire impegno ad alleviare le sofferenze degli infelici e le miserie dei poveri, a diffondere la pace. Alla base vi era un radicale pessimismo, la convinzione che la vita umana non è che dolore e sofferenza, che sulla terra domina solo il male: per questo gli uomini, vittime della loro infelice condizione, devono cessare di farsi del male fra loro, sopire odi e contese, amarsi e soccorrersi a vicenda dinanzi alle dure prove dell'esistenza. Dal cristianesimo primitivo Pascoli traeva la concezione del valore morale della sofferenza, che purifica ed eleva: dolore e lacrime possono divenire un tesoro prezioso, le vittime del male del mondo sono per un certo verso delle creature privilegiate, perché la sofferenza le rende moralmente superiori. Per questo, pur dinanzi ai soprusi e alle ingiustizie, non bisogna abbandonarsi agli odi, ai rancori e al desiderio di vendetta: il dolore, perfezionando il nostro animo, deve insegnare il perdono. La mitizzazione del piccolo proprietario rurale Tali princìpi dovevano per lui valere non solo tra gli individui, ma a maggior ragione nei rapporti fra le classi. Ogni classe doveva conservare la sua distinta fisionomia, la sua collocazione nella scala sociale, ma doveva collaborare con tutte le altre, con amore fraterno e spirito di solidarietà. A questo fine era necessario evitare la bramosia di ascesa sociale, che poteva generare scontri e sopraffazioni, frustrazione e infelicità. Il segreto dell'armonia sociale consiste per Pascoli nel fatto che ciascuno si contenti di ciò che ha, che viva felice anche del poco. Il suo ideale di vita si incarna nell'immagine del proprietario rurale, che coltiva personalmente la terra e guida con equilibrata, amorevole saggezza la sua famiglia. La proprietà è per il poeta un valore sacro e intangibile, la base indispensabile della dignità e della libertà dell'individuo. Ma il poco è preferibile al molto, il piccolo al grande: la felicità è possibile solo nella dimensione del piccolo podere. Pascoli mitizza così il mondo dei piccoli proprietari agricoli come mondo sereno e saggio, baluardo che difende i valori fondamentali, la famiglia, la solidarietà, la laboriosità. Era un mondo che in realtà, negli anni di Pascoli, stava ormai scomparendo, cancellato dai processi di concentrazione capitalistica che si facevano sentire anche nelle campagne ed assorbivano la piccola proprietà, schiacciata dall'insostenibile concorrenza. In luogo del piccolo proprietario subentravano grandi entità impersonali, come banche e società anonime. Pascoli lo sapeva bene, ma innalzava egualmente il suo inno a quella realtà che andava scomparendo, rifugiandosi nel sogno di un passato idealizzato e contrapponendolo ai processi moderni di sviluppo capitalistico che generavano in lui orrore e angoscia. Il nazionalismo Il fondamento dell'ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo familiare, che si raccoglie entro la piccola proprietà, cementato dai legami di sangue, dagli affetti, dai dolori e dai lutti pazientemente sopportati. Ma questo senso geloso della proprietà, del «nido»> chiuso ed esclusivo, si allarga agevolmente ad inglobare l'intera nazione. Si collocano qui le radici del nazionalismo pascoliano. Per questo egli sente con tanta partecipazione il dramma dell'emigrazione, che proprio in quegli anni tocca proporzioni impressionanti: l'italiano che è costretto a lasciare il suolo della patria è come colui che viene strappato dal «nido», dove ci sono le radici più profonde del suo essere. La tragedia dell'emigrazione induce Pascoli a far proprio un concetto corrente del nazionalismo italiano primo-novecentesco: esistono nazioni ricche e potenti, "capitaliste”, e nazioni "proletarie", povere, deboli, oppresse. Tra queste vi è l'Italia. Ebbene, le nazioni “proletarie” hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei loro bisogni, anche con la forza. Pascoli arriva dunque ad ammettere la legittimità delle guerre condotte dalle nazioni proletarie per le conquiste coloniali, in modo da dar terra e lavoro ai loro figli più poveri. In tal caso, per il poeta, si tratta di guerre non di offesa, ma di difesa, e pertanto sacrosante. Sulla base di questi princìpi, nel 1911 Pascoli celebra la guerra di Libia come un momento di riscatto della nazione italiana. In tal modo Pascoli fonde insieme socialismo umanitario e nazionalismo colonialistico. I TEMI DELLA POESIA PASCOLIANA Il cantore della vita comune Si è sottolineato come la poesia pascoliana riveli una sensibilità squisitamente decadente. Quasi certamente quegli aspetti della sua sensibilità e della sua visione scaturiscono da una sua esperienza originaria, più che da radici culturali, ma comunque l'affinità col clima culturale del Decadentismo europeo è evidente. Tuttavia Pascoli è l'esatto contrario del poeta "maledetto", che rifiuta radicalmente la normalità borghese e ostenta atteggiamenti provocatori, di rottura totale nei confronti dei suoi valori e dei suoi comportamenti codificati. Nel suo vissuto, Pascoli incarna esemplarmente l'immagine dell'uomo comune, appagato della sua vita modesta, all'interno della sfera protettiva degli affetti domestici, degli studi, del lavoro di insegnante, nella pace raccolta del «nido» ricostruito entro le mura della sua casa. Dal punto di vista letterario, l'immagine del poeta corrisponde perfettamente a quella dell'uomo: Pascoli si presenta programmaticamente come il cantore della realtà comune e dei suoi valori. Una parte quantitativamente cospicua della sua poesia è destinata proprio alla funzione di proporre quella determinata visione della vita, in nome di intenti pedagogici, morali, sociali. È la celebrazione del piccolo proprietario rurale, è la celebrazione del «borghesuccio» che vive contento nel <<suo appartamentino ammobigliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza»>, come si legge nel Fanciullino. In questo ambito di poesia per così dire "pedagogica" rientra l'invito ad accontentarsi del poco, l'ideale utopistico di una società in cui ogni ceto viva entro i propri confini, senza conflitti con le altre classi sociali, in un clima di cooperazione e di concordia fraterna. A questo filone della poesia pascoliana appartiene quindi anche la predicazione sociale e umanitaria, il sogno di un'umanità affratellata, che nella solidarietà trovi una consolazione al male di vivere, ai dolori e alle miserie connaturati con la condizione esistenziale stessa dell'uomo e aggravati dalle situazioni sociali. Da questo umanitarismo scaturisce poi una serie di temi collaterali che rimandano alla tematica della letteratura umanitaria di fine Ottocento. Pascoli conferisce a quei temi una nota tutta personale. Questa predicazione si avvale anche di miti, impiegati per il loro valore suggestivo: il «fanciullino>> che è al fondo di ognuno di noi, che rappresenta la nostra parte naturalmente ingenua e buona e può garantire la fraternità degli uomini, al di là degli odi e dei conflitti violenti di interessi; il <<nido» familiare caldo e protettivo, in cui i componenti si possono stringere per trovare conforto e riparo dall'urto di una realtà esterna paurosa e minacciosa. Col <<nido» si collega il motivo ricorrente del ritorno dei morti, che spesso accampano la loro spettrale, lugubre presenza nei versi pascoliani. Anche qui però l'ossessione privata è assorbita entro l'intento pedagogico: la tragedia familiare scaturita dall'assassinio del padre è trasformata da Pascoli in una vicenda esemplare, da cui si può ricavare l'idea del male che serpeggia tra gli uomini, la necessità del perdono e della concordia. Il poeta ufficiale Pascoli, oltre a farsi cantore delle idealità dell'uomo comune, può allargare la sua predicazione a temi più vasti, che investono l'umanità intera. Per questo può anche assumere le funzioni del poeta ufficiale, del poeta "vate", che canta le glorie della patria, che indica gli obiettivi del suo riscatto nelle guerre coloniali, destinate ad assicurare uno sfogo all'emigrazione, ed esalta il compito di assicurare la coesione nazionale proprio dell'esercito. Affrontando in poesia questi temi Pascoli interpretava la visione della vita e i sentimenti di larghi strati della popolazione italiana: mentre d'Annunzio offriva alle masse piccolo borghesi un sogno evasivo di gloria, di lusso e di lussuria, che le strappava alla loro mediocrità quotidiana, Pascoli radicava invece nel pubblico le convinzioni profonde che esso già possedeva, ribadiva la fede in alcuni valori elementari ma fondamentali, la proprietà, la famiglia, la devozione e la fedeltà ai morti, l'accontentarsi del poco, la pietà per i sofferenti e i derelitti. La prova di questa sintonia instauratasi tra il poeta e il pubblico è la sua fortuna scolastica. Egli stesso nei suoi scritti indicava esplicitamente i fanciulli come suo uditorio ideale. Questa immagine di Pascoli fu accolta anche dalla critica, che a lungo parlò di poeta delle piccole cose, del poeta <<fanciullino»> cantore della bontà, dell'innocenza, dei valori domestici e civili, della funzione sublime della sofferenza, fornendone un'immagine edulcorata e riduttiva, che ne esorcizzava e ne rimuoveva gli aspetti più inquietanti ma anche più validi, quelli che fanno di lui il maggiore poeta italiano a cavallo dei due secoli, e uno dei più grandi in assoluto. Il grande Pascoli decadente Le trasformazioni del clima culturale e del gusto hanno portato alla luce un Pascoli tutto diverso, scoprendo un Pascoli inquieto, tormentato, morboso, visionario. È il Pascoli che è in perenne auscultazione del mistero che è al di là delle cose più usuali, che sa rendere la presenza di questa seconda, inquietante dimensione del reale caricando gli oggetti più comuni, le "piccole cose" appunto, di sensi allusivi e simbolici; che proietta nella poesia le sue ossessioni profonde, portando alla luce i "mostri", le zone oscure e torbide della psiche, una sensualità morbosa, espressa nel simbolo del fiore maligno, velenoso e al tempo stesso ammaliatore; che traduce nel simbolo della pianta parassita, il vischio, la consapevolezza della duplicità della psiche, dell'urgere di forze profonde, sconosciute, che possono stravolgere gli impulsi razionali; che sa esprimere le sconfitte esistenziali e le delusioni dell'anima moderna, il senso di inadeguatezza della realtà rispetto al sogno, il fascino dell'irrazionale, delle forze oscure che si agitano oltre il limite della conoscenza umana; che sente ovunque in ciò che lo circonda la presenza della morte e trasfigura il reale in un clima visionario, sospeso tra la realtà e il sogno; che traduce le acquisizioni della moderna scienza astronomica in una percezione sgomenta degli abissi dello spazio siderale e con angoscia anticipa future, misteriose catastrofi cosmiche o dà voce al terrore di precipitare nell'infinità senza limiti del cielo; che trasforma i dati oggettivi, offerti dalle sensazioni, in un gioco di parvenze illusorie; che disgrega l'ordine del reale, dilatando smisuratamente il minimo particolare, con una fissità allucinata, ma può egualmente miniaturizzare ciò che è grande. Al di là del poeta pedagogo, cantore della vita comune, si delinea un grandissimo poeta dell'irrazionale, capace di raggiungere profondità inaudite. In questo, Pascoli è ben più radicale di d'Annunzio, le cui intuizioni geniali sono spesso soffocate dal peso degli intenti ideologici e propagandistici. Perciò il poeta <<fanciullino»> può a buon diritto essere ritenuto il nostro scrittore più autenticamente decadente, riconoscendo al termine un valore culturale del tutto positivo. Le angosce e le lacerazioni della coscienza moderna I due Pascoli che abbiamo individuato hanno ovviamente una radice comune, sono connessi da legami profondi e necessari: la celebrazione del «nido», delle piccole cose, della modestia appagante della vita comune, della fraternità umana, è proposta proprio per erigere un baluardo rassicurante dinanzi all'urgere di forze minacciose, che Pascoli avverte con inquietudine, sgomento e paura. In un discorso del 1900 leggiamo considerazioni illuminanti, che ci fanno capire con quale animo Pascoli guardasse alla realtà contemporanea. Il poeta dimostra di avere ben chiari i processi contemporanei della concentrazione monopolistica, i conflitti imperialistici tra le potenze che minacciano una prossima apocalisse bellica, il pericolo dell'instaurarsi di regimi totalitari che renderanno schiava tutta l'umanità, e ne prova orrore. Sono queste paure che lacerano la coscienza della modernità e fanno affiorare i "mostri" nascosti nel profondo. Chiudersi entro i confini ristretti del «nido» assume il valore di un esorcismo, al fine di neutralizzare ciò che il poeta avverte oscuramente muoversi al fondo della sua anima. Però non tutta la sua poesia obbedisce a questo bisogno di rimozione: Pascoli sa anche scandagliare quel fondo buio, lasciarlo affiorare sulla pagina con tutta la sua forza dirompente, guardare in faccia i "mostri": e questa è la sua grandezza. LE SOLUZIONI FORMALI Il modo nuovo di percepire il reale si traduce, nella poesia pascoliana, in soluzioni formali fortemente innovative, che aprono la strada alla poesia novecentesca. La sintassi La sintassi di Pascoli è ben diversa da quella della tradizione poetica italiana, che era modellata sui classici e fondata su elaborate e complesse gerarchie di proposizioni principali, coordinate e subordinate: nei suoi testi poetici invece la coordinazione prevale sulla subordinazione, di modo che la struttura sintattica si frantuma in serie paratattiche di brevi frasi allineate senza rapporti gerarchici tra di loro, spesso collegate non da congiunzioni, ma per asindeto. Di frequente le frasi sono ellittiche, mancano del soggetto, o del verbo, o assumono la forma dello stile nominale. La frantumazione pascoliana rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell'esperienza, il prevalere della sensazione immediata, dell'intuizione, dei rapporti analogici, allusivi, suggestivi, che indicano una trama di segrete corrispondenze tra le cose, al di là del visibile. È una sintassi che traduce perfettamente la visione del mondo pascoliana, una visione "fanciullesca". La conseguenza è che gli oggetti più quotidiani e comuni, visti attraverso quest'ottica, presentano una fisionomia stranita, appaiono come immersi in un'atmosfera visionaria, o di sogno. Non essendovi più gerarchie, nel mondo pascoliano si introduce un relativismo «che non ha più punti di riferimento esterni, oggettivi>>. Il lessico Pascoli non usa un lessico "normale", fissato entro un unico codice: mescola tra loro codici linguistici diversi, allinea fianco a fianco termini tratti dai settori più disparati. Non nascono tuttavia scontri di livelli, conflitti di registri: come le cose convivono senza gerarchie, così avviene delle parole che le designano. È un principio formulato nel Fanciullino: il poeta vuole abolire la "lotta" fra le classi di oggetti e di parole. Troviamo quindi nei suoi testi termini preziosi e aulici, della lingua dotta, o ricavati dai modelli antichi; termini gergali e dialettali, riferentisi alla realtà campestre; una minuziosa, precisa terminologia botanica ed ornitologica, ad indicare le infinite varietà d'alberi, fiori, uccelli che popolano i suoi versi; termini dimessi e quotidiani del parlato colloquiale; parole provenienti da lingue straniere; si aggiunge ancora il gusto per i nomi propri antichi. Gli aspetti fonici Grande rilievo hanno poi gli aspetti fonici. Quelle che più colpiscono sono quelle espressioni che si situano al di sotto del livello strutturato della lingua e non rimandano ad un significato concettuale, come è proprio del linguaggio grammaticalizzato, ma imitano direttamente l'oggetto. Sono in prevalenza riproduzioni onomatopeiche di versi d'uccelli o suoni di campane, non a caso i suoni che in Pascoli si caricano di più intenso valore simbolico. Queste onomatopee indicano un'esigenza di aderire immediatamente all'oggetto, di penetrare nella sua essenza segreta evitando le mediazioni logiche del pensiero e della parola codificata, rientrano insomma in quella visione alogica del reale che è propria di tutta la poesia pascoliana. Al di là delle vere e proprie onomatopee, costantemente i suoni usati da Pascoli possiedono un valore fonosimbolico, tendono ad assumere un significato di per se stessi, senza rimandare al significato della parola. Tra questi suoni si crea una trama sotterranea di echi e rimandi. Questa trama viene a costituire la vera architettura interna del testo, a supplire l'assenza di strutture logico-sintattiche. Allo stesso fine concorrono altri procedimenti usati sistematicamente da Pascoli, quali assonanze ed allitterazioni. La metrica La metrica pascoliana è apparentemente tradizionale, nel senso che impiega i versi più consueti della poesia italiana, endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari ecc., e gli schemi di rime e le strofe più usuali, rime baciate, alternate, incatenate, terzine, quartine, strofe saffiche. Ma in realtà questi materiali son piegati dal poeta in direzioni personalissime. Con il sapiente gioco degli accenti Pascoli sperimenta cadenze ritmiche inedite, con una varietà inesauribile di modulazioni. Anche il verso è di regola frantumato al suo interno, interrotto da numerose pause, segnate dall'interpunzione, da incisi, parentesi, puntini di sospensione. La frantumazione del discorso è accentuata dal frequentissimo uso degli enjambements, che spezzano sintagmi strettamente uniti, quali soggetto-verbo, aggettivo-sostantivo. Pascoli non fa esplodere l'universo linguistico tradizionale, ma li piega in direzioni assolutamente inedite. Le figure retoriche Al livello delle figure retoriche, Pascoli usa largamente il linguaggio analogico. Il meccanismo è quello della metafora, la sostituzione del termine proprio con uno figurato, che ha col primo un rapporto di somiglianza. Ma l'analogia pascoliana non si accontenta di una somiglianza facilmente riconoscibile: accosta in modo impensato e sorprendente due realtà tra loro remote, eliminando per di più tutti i passaggi logici intermedi e identificando immediatamente gli estremi, costringendo così ad un volo vertiginoso dell'immaginazione. Non ci sono passaggi intermedi, di tipo sintattico, che esplicitino il legame logico: il secondo termine è semplicemente dato come apposizione del primo. È un discorso fortemente ellittico, allusivo, che punta sul non detto e arriva quasi al limite dell'enigmatico, del cifrato. Un procedimento affine all'analogia è la sinestesia, che possiede del pari un'intensa carica allusiva e suggestiva, fondendo insieme, in un tutto indistinto, diversi ordini di sensazioni. L'effetto è quello di una maggiore indefinitezza: la realtà corposa, materiale, sfuma in una notazione cromatica, con un effetto puramente suggestivo. Pascoli e la poesia del novecento Queste soluzioni formali aprono la strada alla poesia del Novecento. Avremo modo di trovare in tanti poeti successivi, in particolare negli ermetici, scelte espressive analoghe a quelle pascoliane. Per questo si è potuto parlare di un Pascoli <<verso il Novecento» o addirittura «dentro» il Novecento. LE RACCOLTE POETICHE I componimenti pascoliani furono raccolti dal poeta in una serie di volumi, pubblicati tra il 1891 e il 1911. Tuttavia cercare di ricostruire uno sviluppo interno della sua poesia seguendo la successione cronologica di queste raccolte è sicuramente fuorviante, in quanto il loro ordine di uscita non coincide con quello della composizione dei singoli testi. Nel corso degli anni Novanta Pascoli lavora contemporaneamente a vari generi poetici, affronta temi diversi con soluzioni formali anche lontane fra loro: ebbene, le poesie nate nello stesso periodo confluiranno poi in Myricae, nei Poemetti, nei Canti di Castelvecchio, nei Poemi conviviali, in Odi ed inni. La distribuzione nelle varie raccolte obbedisce non tanto all'ordine cronologico di composizione, quanto a ragioni formali, di natura stilistica e metrica. Le raccolte si arricchiscono, nelle successive edizioni, di testi nuovi, oppure presentano rielaborazioni profonde di testi più antichi. Disgregando le raccolte e ridistribuendo le singole poesie nella loro successione cronologica, sarebbe difficile ricostruire uno sviluppo nel tempo, un chiaro, lineare processo evolutivo. La poesia di Pascoli è sostanzialmente sincronica: sono ovviamente riconoscibili arricchimenti e approfondimenti di temi, mutamenti di soluzioni stilistiche nel corso del tempo, ma svolte veramente radicali, che possano legittimamente far parlare di fasi diverse e distinte, non possono essere individuate. MYRICAE La prima raccolta vera e propria fu Myricae, uscita nel 1891 in edizione fuori commercio e contenente 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Il volume si ampliò già dalla seconda edizione del 1892, che conteneva 72 componimenti, ma cominciò ad assumere la sua fisionomia definitiva solo a partire dalla quarta, del 1897, in cui i testi salivano a 116. Il titolo è una citazione virgiliana, tratta dall'inizio della IV Bucolica, in cui il poeta latino proclama l'intenzione di innalzare un poco il tono del suo canto. Pascoli assume invece le umili piante proprio come simbolo delle piccole cose che egli vuole porre al centro della poesia, secondo i princìpi di quella poetica che di lì a qualche anno esporrà nel Fanciullino. Si tratta in prevalenza di componimenti molto brevi, che all'apparenza si presentano come quadretti di vita campestre, ritratti con un gusto impressionistico, con rapide notazioni che colgono un particolare, una linea, un colore, un suono. Ma in realtà i particolari su cui il poeta fissa la sua attenzione non sono dati oggettivi, resi naturalisticamente, ma si caricano di sensi misteriosi e suggestivi, sembrano alludere ad una realtà ignota e inafferrabile che si colloca al di là di essi, sono i segnali di un enigma affascinante ed inquietante insieme. Spesso le atmosfere che avvolgono queste realtà evocano l'idea della morte; ed uno dei temi più presenti nella raccolta è il ritorno dei morti familiari, che vengono a riannodare i legami spezzati dall'uccisione del padre e dai tanti lutti successivi. Già a partire da Myricae Pascoli delinea quel romanzo familiare che è il nucleo doloroso della sua visione del reale. Compaiono poi quelle soluzioni formali che costituiscono la profonda originalità della poesia pascoliana: l'insistenza sulle onomatopee, il valore simbolico dei suoni, l'uso di un ardito linguaggio analogico, la sintassi frantumata. Pascoli sperimenta anche una varietà di combinazioni metriche inedite, utilizzando in genere versi brevi, in particolare il novenario, un verso poco frequente nella tradizione italiana. I POEMETTI Il <<romanzo georgico>> Una fisionomia diversa possiedono i Poemetti, raccolti una prima volta nel 1897, poi ripubblicati con aggiunte nel 1900, ed infine, nella veste definitiva, divisi in due raccolte distinte, Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909). Si tratta di componimenti più ampi di quelli di Myricae, che all'impianto lirico sostituiscono un più disteso taglio narrativo, divenendo spesso dei veri e propri racconti in versi. Muta anche la struttura metrica: ai versi brevi subentrano, di regola, le terzine dantesche, raggruppate in sezioni più o meno ampie. Anche qui, però, assume rilievo dominante la vita della campagna. All'interno delle due raccolte si viene a delineare un vero e proprio «romanzo georgico», cioè la descrizione di una famiglia rurale di Barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. La narrazione è articolata in veri e propri cicli, che traggono il titolo dalle varie operazioni del lavoro dei campi, La sementa, L'accestire nei Primi poemetti, La fiorita e La mietitura nei Nuovi poemetti. Questa raffigurazione della vita contadina si carica di scoperti intenti ideologici: il poeta vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori tradizionali e autentici, solidarietà familiare e affetti, laboriosità, bontà, purezza morale, schiettezza, semplicità, saggezza, in contrapposizione alla negatività della realtà contemporanea. La vita del contadino, chiusa nelle dimensioni ristrette del podere e del «nido» domestico, scandita dal ritorno ciclico delle stagioni e dall'avvicendarsi sempre eguale dei lavori dei campi, appare al poeta come un rifugio rassicurante. La rappresentazione della vita contadina assume quindi la fisionomia di un'utopia regressiva, nel senso che Pascoli proietta il suo ideale nel passato, in forme di vita che stanno scomparendo, travolte dallo sviluppo della realtà sociale ed economica moderna, in un processo ormai irreversibile. È evidente perciò come questa raffigurazione della campagna non abbia punti di contatto con quella che pochi anni prima era stata offerta dal Verismo, in particolare da Verga: il mondo rurale pascoliano è idealizzato e idillico, ignora gli aspetti più crudi della realtà popolare, il bisogno, la miseria, la degradazione e l'abbrutimento della natura umana, ignora i conflitti sociali, la violenza della lotta per la vita, la disumanità delle leggi economiche, che fanno sì che la campagna sia nella sua essenza equivalente alla società delle <<Banche» e delle <<Imprese industriali» anziché un Eden intatto di autenticità e innocenza. Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimessi di quel mondo, designando con minuziosa precisione gli oggetti e le operazioni del lavoro dei campi, ma anche questa precisione non ha nulla di naturalistico, di documentario: al contrario risponde all'intento di ridare la sua vergine freschezza originaria alla parola, per esprimere una stupita meraviglia dinanzi alle cose. Non solo, ma il poeta vuole mettere in rilievo quanto di poetico è insito anche nelle realtà umili, la loro dignità "sublime", per cui le più consuete attività quotidiane della vita di campagna sono da lui trasfigurate in una luce di epos, mediante il ricorrere di formule tratte dagli antichi poeti. Si ha quindi, nei Poemetti, una singolare mescolanza di elementare semplicità e di preziosa raffinatezza, che talora però suona falsa e rivela lo sforzo artificioso. Gli altri temi Al di fuori di questo ciclo "georgico" si collocano però numerosi poemetti, che presentano temi più inquietanti e torbidi, densi di significati simbolici, come Il vischio, che insiste sull'immagine mostruosa di una pianta parassita e "vampira", che succhia la vita di un albero da frutto, dando origine ad un ibrido ripugnante, Digitale purpurea, con al centro un «fiore di morte» che emana un profumo inebriante e insidioso e turba l'innocenza delle educande di un convento, Suor Virginia, che crea un'atmosfera notturna arcana, sospesa e visionaria, in cui aleggia un presagio di morte; oltre a questi, vanno poi ricordati altri testi famosi: L'aquilone, tutto giocato sul tema della memoria che riporta a stagioni passate, facendo rivivere l'infanzia; Italy, che affronta invece un tema sociale, quello dell'emigrazione che tanto sta a cuore a Pascoli, descrivendo il ritorno temporaneo di una famiglia di emigranti al paese natale e il conflitto fra due mondi, quello moderno e industriale della nuova patria, l'America, e quello arcaico della campagna lucchese; La vertigine, che esprime l'angoscia originata dal percepire la terra muoversi negli infiniti spazi siderali e il terrore di precipitare in essi senza mai trovar fine. I CANTI DI CASTELVECCHIO I Canti di Castelvecchio (1903) sono definiti dal poeta stesso, nella prefazione, «myricae»>, quindi si propongono intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Anche qui ritornano immagini della vita di campagna, canti d'uccelli, alberi, fiori, suoni di campane, e ricompare una misura più breve, lirica anziché narrativa. I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni: ancora una volta l'immutabile ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore e dall'angoscia dell'esistenza storica e sociale. Ricorre con frequenza ossessiva, infatti, il motivo della tragedia familiare e dei cari morti, che si stringono intorno al poeta a rinsaldare quel vincolo di sangue e d'affetti che la brutale violenza degli uomini ha spezzato. Vi è anche il rimando continuo del nuovo paesaggio di Castelvecchio a quello antico dell'infanzia in Romagna, quasi ad istituire un legame ideale tra il nuovo <<nido»> costruito dal poeta e quello spazzato via dalla tragedia. Non mancano però anche in questa raccolta i temi più inquieti e morbosi, che danno corpo alle segrete ossessioni del poeta: l'eros, contemplato col turbamento del fanciullo per il quale il rapporto adulto è qualcosa di ignoto, affascinante e ripugnante insieme e la morte, che a volte appare un rifugio dolce in cui sprofondare, come in una regressione nel grembo materno. Dalle piccole cose della realtà umile lo sguardo si allarga poi agli infiniti spazi cosmici, ad immaginare misteriose apocalissi future che distruggeranno forse la vita dell'universo. I POEMI CONVIVIALI, I CARMINA, LE ULTIME RACCOLTE, I SAGGI I Poemi conviviali Un carattere apparentemente molto diverso dai Canti di Castelvecchio presentano i Poemi conviviali (1904). Si tratta di poemetti dedicati a personaggi e fatti del mito e della storia antichi, dalla Grecia sino alla prima diffusione del cristianesimo: vi compaiono così Achille, Ulisse, Elena di Troia, Solone, Socrate, Alessandro Magno. La ricostruzione del mondo antico si fonda su una preziosa erudizione, che si compiace di esplorare aspetti marginali e poco noti del mito e della storia, con un gusto che appare vicino a quello dell'alessandrinismo, l'epoca della letteratura greca successiva ad Alessandro Magno. Anche il linguaggio è raffinatamente estetizzante e spesso mira a riprodurre in italiano il clima e lo stile della poesia classica, con un gusto che deriva scopertamente dalla poesia parnassiana. Non si tratta però di un arido ed esteriore esercizio erudito: sotto le vesti classiche, in questi poemetti compaiono tutti i temi consueti della poesia pascoliana. Il mondo antico, nei Poemi conviviali, non è dunque un mondo di immobile e gelida perfezione, ma si carica delle inquietudini e delle angosce della sensibilità moderna. I Carmina e le ultime raccolte Ai Poemi conviviali si possono accostare i Carmina latini. Si tratta di trenta poemetti e di settantuno componimenti più brevi, scritti da Pascoli per il concorso di poesia latina di Amsterdam, per i quali egli ottenne numerose volte la medaglia d'oro. Non furono raccolti organicamente dal poeta e videro la luce solo postumi, nel 1915. Sono in genere dedicati agli aspetti più marginali della vita romana ed hanno per protagonisti personaggi umili, gladiatori, schiavi, un'umanità minore, dolente, ma riscattata da un'intima bontà. Vi si proietta l'ideologia umanitaria di Pascoli, che della civiltà romana, per altri aspetti tanto amata, respinge il crudele costume della schiavitù, e vi si delinea l'attenzione affascinata per il messaggio cristiano di riscatto spirituale degli umili e degli oppressi. Il latino di Pascoli non è una lingua morta, ma una lingua intimamente rivissuta, che rivela profonde affinità col linguaggio delle poesie italiane, soprattutto nel suo ritmo spezzato, che appare lontano dall'armonia del latino classico. Nelle ultime raccolte Pascoli assume le vesti del poeta ufficiale, celebratore delle glorie nazionali e inteso a propagandare princìpi morali e civili, prendendo spunto ora dall'attualità ora da fatti della storia medievale, rinascimentale, risorgimentale, ed emulando il maestro Carducci e l'amico rivale d'Annunzio. Sono versi che rivelano spesso virtuosismi linguistici e metrici del tutto artificiosi, e che oggi appaiono per gran parte illeggibili. Il saggista e il critico Insieme alle raccolte poetiche è necessario ricordare l'attività di saggista e di critico propria di Pascoli. Il Pascoli propriamente critico è quello che si trova nei tre volumi dedicati a Dante, Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1908), in cui viene offerta una complessa, sottile interpretazione allegorica ed esoterica della poesia dantesca, intesa a ricostruire il sistema dei suoi sensi riposti. In questa vasta fatica Pascoli aveva profuso grandi ambizioni, ma in realtà i volumi incontrarono reazioni fredde o addirittura ostili nella critica del tempo. Accanto agli scritti critici si possono collocare i lavori scolastici di Pascoli, le antologie italiane Sul limitare (1898) e Fior da fiore (1901) e quelle latine Lyra (1896) ed Epos (1897), in cui le scelte antologiche riflettono puntualmente il gusto personale del poeta, tanto che i passi degli altri scrittori da lui raccolti sembrano in qualche modo diventati suoi. Lo stile della prosa pascoliana è molto lontano da quello della prosa erudita del tempo: lo scrittore adotta un tono colloquiale, pacato, dimesso, che però nella sua voluta semplicità ha spesso qualcosa di manierato e lezioso. Più sostenuto e non privo di enfasi retorica è invece lo stile dei discorsi ufficiali, pronunciati in varie occasioni pubbliche. ANALISI -UNA POETICA DECADENTE Una teoria della poesia e un programma poetico In queste pagine risaltano, attraverso un linguaggio metaforico, i punti essenziali della teoria pascoliana della poesia, che contiene al tempo stesso un programma poetico, quello che Pascoli andava realizzando proprio in quegli anni nelle varie edizioni di Myricae e nei Poemetti. Tali punti sono, in sintesi: il tipo di conoscenza prerazionale e immaginoso che è proprio del «fanciullino» e che consente di cogliere la realtà nella sua essenza profonda, senza seguire le tappe del ragionamento logico; la verginità primigenia della parola poetica; la scoperta delle corrispondenze segrete fra le cose; il poeta come colui che può spingere lo sguardo oltre i limiti della realtà visibile; la poesia "pura" che non deve proporsi finalità estrinseche, ma che proprio per questo può ottenere effetti di <<suprema utilità morale e sociale», indicando un'utopica società senza conflitti, in cui tutti gli uomini siano affratellati; il rifiuto della separazione classica degli stili, la dignità poetica che va scoperta anche nelle cose piccole e umili, non solo in quelle sublimi e aristocratiche. Le metafore floreali Quest'ultimo concetto è espresso da Pascoli attraverso le metafore floreali che gli sono care: belli e degni di essere cantati sono non solo gli esotici e rari fiori delle «agavi americane» ma anche i piccoli fiori della «pimpinella». A questa poetica delle piccole cose Pascoli si ispira abitualmente nella sua poesia: vi allude lo stesso titolo della sua prima raccolta, Myricae, che, citando il Virgilio della IV Bucolica, si riferisce proprio a piante umili, le tamerici. Oltre a distaccarsi dal gusto aulico della tradizione poetica italiana, qui Pascoli prende le distanze anche dalla contemporanea poesia di d'Annunzio, sontuosa e preziosa nel suo estetismo superomistico, che punta decisamente verso un'aulicità sublime nelle scelte tematiche e stilistiche. -ARANO Un quadro apparentemente bozzettistico Come è consueto nella poesia di Myricae, il quadro appare a prima vista realistico, ma cela significati più profondi. La lirica si apre con una serie di impressioni visive, che sembrano registrate oggettivamente: la netta macchia di colore del pampano <<roggio», lo sfondo della nebbia che invece sfuma i contorni. Poi il quadro si precisa e si popola di figure umane e animali in movimento, come se l'occhio del poeta compisse una “carrellata”, per usare una metafora cinematografica. Lo stacco tra i due momenti è segnato dal verbo «arano» al verso 4, a cui conferiscono particolare rilievo la collocazione all'inizio di verso e di strofa e al termine del periodo sintattico, l'accento sulla prima sillaba, il forte enjambement, il soggetto indeterminato. Si delinea il quadro delle opere umane tipiche della campagna in autunno, care a Pascoli cantore della realtà rurale. Può sembrare una semplice immagine bozzettistica, quasi nel gusto dei quadretti dei lavori dei campi proposti dalla pittura di genere settecentesca, di ispirazione arcadica. Ma al di sotto si avverte un senso vago di malinconia, dato dalla nebbia che sale, dalle voci sperdute dei contadini che echeggiano nella campagna brulla d'autunno, dalla fatica paziente che ripete gesti secolari e che però è insidiata dagli uccelli che sicuramente beccheranno le sementi. C'è il senso della lotta dell'uomo contro la natura, faticosa eppur sempre condotta con stoica tenacia. Un ribaltamento di prospettive La quartina finale, inaspettatamente, ribalta le prospettive. La scena è ora presentata attraverso un altro punto di vista, quello degli uccelli, che vengono dal poeta umanizzati. Quella che per i contadini è fatica pesante e sempre insidiata, per gli uccelli è fonte di vita. La nuova prospettiva introduce nella poesia un tono più gioioso, quasi ilare. Esso si concreta nell'ultima impressione fonica, in quel <sottil tintinno come d'oro» che risuona allegro nello scenario triste della campagna autunnale e nebbiosa. Nel paragone è celata una sinestesia: non solo il verso del pettirosso richiama il tintinnio dell'oro, ma il suono evoca anche una sensazione visiva, il luccichio del metallo. La poesia si chiude così con un'altra notazione di colore brillante, in simmetria con il rosso del pampano che <<brilla» in apertura. Come si vede, dietro le immagini apparentemente oggettive si delinea una trama più segreta di allusioni e suggestioni. -LAVANDARE Il paesaggio autunnale Valgono per questo testo le considerazioni fatte per Arano. A prima vista si ha una registrazione di dati oggettivi, veristici e bozzettistici: la prima terzina è dominata da impressioni visive, giocate su tonalità spente, autunnali (la terra mezza grigia e mezza nera) e per di più sfumate dalla nebbia leggera; la seconda si incentra invece su impressioni uditive, lo <<sciabordare», i «tonfi», i canti delle lavandaie che provengono da lontano (senza che le figure umane entrino visivamente nel quadro). La quartina finale potrebbe sembrare la trascrizione di gusto veristico di un puro "documento", di un canto popolare. In realtà tutti questi dati assumono un valore simbolico. Si stabilisce una corrispondenza segreta tra lo stornello delle lavandaie e il particolare, presente all'inizio, dell'aratro dimenticato nel campo arato solo a metà: gli oggetti, il campo, l'aratro, rendono un senso di incompiutezza, di abbandono, carico di tristezza, accentuata dall'atmosfera autunnale desolata, grigia e nebbiosa; ciò che gli oggetti esprimono è poi ripreso dal canto popolare, che ribadisce la malinconia della lontananza, del passare del tempo, dell'attesa inutile, della solitudine e dell'abbandono. Lo stile Dal punto di vista stilistico e metrico la semplicità del dettato come sempre cela sottili artifici. Si possono notare: l'enjambement tra i versi 2 e 3, che conferisce un forte spicco a <dimenticato>>, termine chiave in cui è racchiuso tutto il senso segreto del componimento; l'assonanza interna <<aratro»>/<<dimenticato», tra il verso 2 e il verso 3; le rime interne tra il verso 3 e il verso 4, <<dimenticato»>/<<cadenzato», e al verso 5 tra il primo e il secondo emistichio, <<sciabordare»> / <<lavandare»>, che creano una cadenza lenta e prolungata di cantilena; la quasi assonanza delle sillabe finali in -ero e -are; l'assonanza tra i versi 7 e 9, <<frasca»> /«<rimasta», tipica della poesia popolare; l'allitterazione tra «vapor», «gora», «sciabordare»>, <«<torni ancora»; il chiasmo del verso 6, sostantivo e aggettivo aggettivo e sostantivo, col gioco fonico simmetrico tra le vocali accentate: vocale cupa, o, u (<<tonfi»>, <<lunghe») e vocale chiara e («spessi», «<cantilene»), che conferisce al verso un andamento lento, cadenzato, quasi a riprodurre il ritmo monotono del lavoro delle lavandaie, con un effetto analogo alla rima interna del verso precedente. Come si vede, non sono artifici gratuiti, fini a se stessi, ma ciascuno di essi riveste un preciso valore espressivo. -XAGOSTO La costruzione della poesia La poesia appare molto diversa dalle altre di Myricae in precedenza riportate: non è un quadro di natura, reso con rapide notazioni impressionistiche, che si carichi di sensi simbolici, ma un discorso ideologicamente strutturato, in cui il poeta, prendendo le mosse dalla propria tragedia familiare, affronta i grandi temi metafisici del male e del dolore, del rapporto tra la dimensione terrena e il trascendente. Il risultato dà l'impressione di qualcosa di troppo costruito, di scopertamente patetico, enfatico e predicatorio. La poesia è molto famosa, consacrata da una lunga tradizione scolastica, ma oggi il Pascoli più autentico e valido non ci appare più questo: più vicino al nostro gusto è invece il Pascoli "simbolista", che sa rendere con tocchi suggestivi e con un linguaggio di rivoluzionaria forza innovativa il senso del mistero, creando atmosfere magiche e incantate, oppure quello che esprime la sua visione del reale tormentata, angosciata, funebre, in forme visionarie, oniriche, torbide e sconvolte; il Pascoli che, per usare la famosa definizione di Luciano Anceschi, va decisamente <verso il Novecento»>. La costruzione tutta predicatoria e retorica della poesia è rivelata dalle sue geometriche, studiate simmetrie: la prima strofa corrisponde all'ultima, proponendo il motivo del pianto del cielo che guarda da un'infinita lontananza il male della terra, e a sua volta il gruppo delle strofe 2 e 3 risponde esattamente al gruppo della 4 e della 5. Evidenti e insistite sono anche le rispondenze a livello microstrutturale. Si possono poi ravvisare rispondenze meno scoperte: gli <spini» tra cui cade la rondine ricordano la corona di spine della passione di Cristo, e la conferma viene subito dopo dall'immagine della croce («Ora è là, come in croce», v. 9): la rondine uccisa diviene il simbolo di tutti gli innocenti perseguitati dalla malvagità degli uomini e allude alla figura della vittima per eccellenza, Cristo; ma anche il padre che, morendo, perdona i suoi uccisori, ricorda Cristo in croce che perdona i suoi persecutori. Non è però questa la segreta trama di rispondenze simboliche, affidata ad immagini suggestive e dissimulata sotto il discorso di superficie, che connota la poesia del Pascoli "simbolista", ma è una trama costruita tutta dall'esterno e cerebralmente, esibita con insisten a scopi predicatori, di ammonimento, di edificazione, di persuasione. I temi centrali In obbedienza al vago spiritualismo proprio dell'anima decadente, delusa e respinta dal fallimento della scienza positivistica, che è incapace di risolvere i problemi dell'esistenza, Pascoli imposta il problema del male in chiave metafisica e religiosa: ogni vittima innocente che soffre è immagine di Cristo, e il cielo piange sull'«atomo opaco del Male»>, verso 24. Ma, appunto come è proprio della religiosità decadente, il poeta non approda a una religione positiva: come ha osservato Angelo Marchese, il sacrificio delle vittime innocenti non ha il significato del sacrificio di Cristo, che annuncia la salvezza. Così il pianto del cielo non sembra implicare una prospettiva di riscatto, di purificazione: il cielo appare impotente a riscattare tanto male e si limita ad uno sterile compianto. Il cielo è remoto, come inaccessibile: tra la dimensione terrena e quella trascendente non vi è comunicazione. Il testo è significativo anche perché vi compare in piena luce uno dei miti centrali della poesia pascoliana, quello del «nido». L'analogia tra rondine e uomo non è solo nel loro sacrificio, ma anche nel fatto che essi vengono violentemente esclusi dal «nido». Come ha indicato Bàrberi Squarotti, il <<nido»> compendia perfettamente l'idea pascoliana della famiglia, dei suoi legami oscuri e viscerali, che inglobano l'individuo e lo proteggono dal mondo esterno pieno di insidie, escludendolo dalla vita sociale e vincolandolo solo ad una fedeltà ossessiva ai morti. -L'ASSIUOLO La struttura La poesia esteriormente è la descrizione di un notturno lunare, reso attraverso una serie di sensazioni visive e uditive, ma come sempre il quadro apparentemente impressionistico si rivela immerso in un'atmosfera arcana, gravida di sensi suggestivi, legati da una trama sotterranea di echi e rimandi. Tutt'e tre le strofe si strutturano secondo un analogo schema: la prima quartina propone immagini quiete, serene e di pace, mentre nella seconda si delineano immagini più inquietanti: un'atmosfera iniziale incantata e sospesa i converte poi in un motivo di angoscia, di dolore e di morte, che si materializza nel verso lugubre dell'assiuolo. La prima strofa All'inizio della prima strofa viene colto un momento fuggevole e impalpabile di trapasso, il momento in cui sta per sorgere la luna (l'incertezza e la labilità sono accentuate dall'interrogazione che apre il discorso, «Dov'era la luna?»); il cielo è invaso da un chiarore perlaceo, ma l'astro non è ancora apparso da dietro l'orizzonte. La natura è protesa nell'aspettazione della sua comparsa (il mandorlo e il melo si ergono per meglio vederla), come dinanzi ad un'apparizione divina; apparizione che sembra possedere una magica funzione rasserenante e purificatrice, a cui allude sia la nota di bianco sia l'idea di nascita, di inizio che è implicita nella metafora dell'alba (<un'alba di perla>>, v. 2). A contrasto con questa calma pienezza, nella seconda parte della strofa si delinea un'immagine inquietante, di vaga e imprecisata minaccia: il <<nero» delle nubi, che si profilano in una lontananza remota e indeterminata («<laggiù»), si contrappone al biancore perlaceo dell'alba lunare, ed ancora più inquietanti sono i silenziosi lampi di calore che da esse scaturiscono, evocati con suggestivo procedimento sinestetico (<soffi di lampi», v. 5), per cui l'impressione visiva di luce è assimilata a quella tattile (o, se preferisce,bacustica) del soffio. Il negativo implicito nelle notazioni visive si precisa poi in una voce, il verso dell'assiuolo che viene da uno spazio indefinito, nella notte. Sappiamo che la voce degli uccelli, in Pascoli, ha sempre il valore di un messaggio arcano, oracolare, pieno di sensi simbolici: in questo testo il canto dell'assiuolo, col suo tono malinconico e misterioso e il risuonare nelle tenebre notturne, ha qualcosa di lugubre, di vagamente funebre. La seconda strofa All'inizio della seconda strofa si ripresentano immagini quiete e serene, le stelle che rilucono nel chiarore diffuso e lattiginoso (è ribadita la nota di bianco della strofa precedente, con lo stesso valore simbolico), il rumore del mare che si associa a immagini consolanti (la metafora del <<cullare>> rievoca sensazioni di abbandono infantile alla dolcezza materna). Il rumore indistinto che proviene dalle fratte introduce già una nota più misteriosa e segna il passaggio al clima della seconda quartina: al guizzo dell'imprecisato essere tra la vegetazione risponde il «sussulto» nel cuore del poeta al sorgere di un'eco di dolore, che è come ridestato dai rumori notturni. Il «grido»> che risuona nell'interiorità dell'io lirico è ripreso dal verso dell'assiuolo: ora la nota vagamente inquietante si precisa, quella che era semplicemente la «voce» dell'uccello suona come un «singulto>>. La terza strofa All'inizio della terza strofa ritorna, in simmetria con le precedenti, l'immagine della luce lunare, che qui colpisce le cime degli alberi, ma subito poi si inseriscono notazioni più negative, il <<sospiro»> del vento che trema, il suono finissimo delle cavallette. È questa un'impressione fonica che è ambigua come il <<fru fru tra le fratte» (v. 12), e reca anch'essa un messaggio misterioso. L'incertezza e l'ambiguità sono di nuovo sottolineate da una domanda, che ipotizza il valore simbolico di quel suono: le «invisibili porte» sono plausibilmente quelle della morte. Come opportunamente ricorda Giuseppe Nava, attento commentatore di Myricae, i <<sistri>> erano strumenti sacri alla dea egiziana Iside, ed il suo culto era un culto misterico che prometteva la risurrezione dopo la morte. Ma se per il poeta le porte della morte non si aprono più, si comprende la vaga angoscia che pervade tutte le sensazioni del notturno lunare: è l'angoscia della morte che non consente la rinascita della vita, non permette il ritorno dei cari scomparsi. A conferma del valore simbolico dei «sistri»> delle cavallette e delle <<invisibili porte», in chiusura della strofa e della poesia il verso dell'assiuolo si concreta in un «pianto di morte»>. L'atmosfera inquietante, angosciosa, funebre che pervade tutto il componimento assume nella sua conclusione una fisionomia più precisa: evocato dai rumori misteriosi della notte e dal grido lontano dell'assiuolo, riaffiora alla memoria del poeta il pensiero della sua tragedia personale, dei lutti che hanno funestato la sua vita, l'idea dei suoi morti che non possono più tornare, della morte che incombe anche su di lui. È questa l'eco <<d'un grido che fu» (v. 14), che rinasce dentro di lui facendolo sussultare. Ma tutto ciò non è detto esplicitamente, in un discorso logicamente strutturato: è alluso attraverso una rete di immagini indefinitamente suggestive, ed è questo che costituisce il fascino incomparabile della poesia, in confronto a tante altre in cui la tragedia familiare del poeta è rievocata in forme retoriche, patetiche e predicatorie. Gli aspetti formali L'atmosfera indefinita e magica si riflette in una serie di espressioni dal carattere suggestivamente analogico: <<alba di perla», «soffi di lampi», «nero di nubi», «nebbia di latte», «cullare del mare»>, <<sospiro di vento»>, <<finissimi sistri d'argento», «pianto di morte». Per capire il funzionamento del linguaggio analogico si prenda un'espressione come <notava in un'alba di perla». Vi è implicita tutta una serie di paragoni, che si potrebbe così esplicitare: il sorgere della luna è come un'alba, il cielo chiaro ha il biancore della perla ed è invaso come da un liquido trasparente, in cui sembra nuotare. Tutti i passaggi intermedi che abbiamo indicato sono saltati e gli estremi sono immediatamente identificati. L'effetto è una maggior densità del linguaggio poetico: la cancellazione dei passaggi logico-discorsivi accresce la sua forza suggestiva, che sembra alludere a segreti legami tra le cose, inattingibili ad una visione puramente razionale. Significativo è poi il sintagma <nero di nubi»: l'uso del sostantivo astratto con il complemento di specificazione, in luogo del concreto «nubi nere», accresce l'indefinitezza dell'espressione e accentua il carattere simbolico, inquietante e minaccioso dell'immagine. A ciò concorre anche l'indicazione di indeterminata lontananza spaziale che l'accompagna, «<laggiù». All'effetto suggestivo del linguaggio analogico si associa ancora il simbolismo fonico, così caro a Pascoli: l'allitterazione <<fru fru tra le fratte», col suo valore onomatopeico, accresce il carattere misterioso e inquietante dell'immagine indeterminata. Nel sintagma <finissimi sistri» (v. 20) il fonosimbolismo è scoperto: l'insistenza sulle vocali dal suono sottile, le i (sono ben sei in due parole) rende fonicamente l'impressione del verso delle cavallette, così come successivamente «tintinni»> ed «invisibili»> (altre otto i in due parole consecutive). La poesia è un affollarsi di sensazioni, in cui si delinea sempre più qualcosa di misteriosamente angoscioso: ebbene, il processo è reso attraverso una struttura verbale prevalentemente anaforica, che dà appunto l'idea di un affollarsi ripetitivo, incalzante. Si noti la collocazione dei verbi tutti all'inizio del verso: «notava»>, <«<ed ergersi»>, <<parevano», «Venivano»>, <«veniva», «sentivo»>, <<sentivo»>, <<sentivo»>, <<Sonava», «tremava», «squassavano», «<e c'era». Su ventiquattro versi, ben dodici iniziano con un verbo. L'effetto è ribadito dalla costruzione sintattica, sistematicamente fondata sulla paratassi: si ha l'allinearsi in parallelo di brevi membri tra loro coordinati, quasi tutti collegati per asindeto, cioè senza congiunzione. Non si ha una struttura sintattica complessa, gerarchizzata, i membri si succedono semplicemente uno dopo l'altro. Non si crea quindi una struttura logica, che sarebbe l'effetto di un insieme di proposizioni gerarchicamente subordinate: il reale si frantuma in impressioni isolate, e il legame che le unisce non è logico ma analogico, simbolico, allusivo, segreto. -NOVEMBRE Il carattere illusionistico del quadro iniziale Anche qui, come spesso accade in Myricae, in apertura si ha apparentemente un quadretto di natura, impressionistico e naturalistico, colto con notazioni intensamente sensuali, visive e olfattive, e con immagini nitide e vivide (l'aria limpida come una gemma, il sole luminoso, gli albicocchi fioriti, il profumo del biancospino, di cui viene resa con precisione la sfumatura amarognola). Ma in realtà quel paesaggio primaverile si colloca in un'altra dimensione rispetto a quella effettuale: il reale non è quello che appare, è labile e sfuggente, la primavera è solo illusoria; gli albicocchi in fiore, il profumo dei biancospini non sono veramente percepiti coi sensi, ma creati dall'immaginazione. La realtà sensibile sfuma nell'immaginario. Si conferma così subito come la poesia di Pascoli sia evocativa, suggestiva, illusionistica, non si fermi mai al dato fisico, oggettivo, ma rimandi sempre a un “di là" dalle cose. Apparentemente in contrasto con questo carattere illusionistico è la precisione della nomenclatura botanica, così tipica della poesia pascoliana (ed in altri componimenti ancora più accentuata): il poeta non parla genericamente di alberi, ma di «albicocchi» e di «prunalbo». In realtà questa terminologia non conserva nulla della precisione scientifica e naturalistica della matrice da cui è tratta. Si ricordi come, nel Fanciullino, il poeta sia definito «<l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente». Il nome preciso è come la formula magica che permette di andare oltre la superficie consueta e morta degli oggetti, di cogliere l'essenza primigenia, fresca e intatta delle cose, il loro mistero, di giungere «d'un tratto», senza <scendere a uno a uno i gradini del pensiero», <<nell'abisso della verità». La precisione terminologica naturalistica è al servizio di una poesia intesa come illuminazione e rivelazione, che ne muta totalmente il significato. Le immagini di morte Nella seconda strofa si inserisce una nuova dimensione: all'illusoria primavera subentra la reale stagione autunnale. I particolari individuati dall'occhio corrispondono a quelli creati dall'immaginazione, ma rovesciati di segno: il «pruno» non emana profumo ma è secco, le piante non sono fiorite ma disegnano le nere trame dei loro rami nudi sul cielo sereno. Tornano immagini fortemente visive, ma anche questo quadro di natura, che dovrebbe restituire il vero volto della realtà contro l'illusione, non è realistico; anche qui si sovrappone un'altra dimensione: dietro il paesaggio si disegna l'immagine simbolica della morte. Alla morte alludono i rami stecchiti come scheletri e il nero delle loro trame, che nega l'azzurro del cielo sereno, simbolo di vita, il cielo vuoto di voli d'uccelli, il terreno non ricco di semi e di succhi fecondi, ma sterile e morto, ridotto a una consistenza puramente minerale. Immagini di morte sono anche il silenzio che apre l'ultima strofa ed il rumore delle foglie secche che cadono. Sotto la superficie letterale del discorso poetico si crea una trama sotterranea di immagini allusive: si conferma come quella di Pascoli sia una poesia analogica, evocativa. Ad essa rispondono le scelte linguistiche, che giocano su segrete suggestioni. Così è per l'immagine del «cader fragile» delle foglie, che non è solo una figura retorica ornamentale e preziosa, un'ipallage: lo spostamento dell'aggettivo <<fragile»> dal suo termine proprio (<foglie>>) ad uno contiguo, il verbo sostantivato «cader», è una vera e propria sinestesia, in cui una realtà astratta come il movimento evoca una sensazione tattile, e questa a sua volta si fonde con una sensazione uditiva, il lieve rumore delle foglie secche che cadono. Noi sappiamo come la sinestesia sia un procedimento caro alla sensibilità decadente e valga a sottolineare la rete di segrete corrispondenze consentita dalla sotterranea fusione di io e mondo, soggetto e oggetto. Così è per l'espressione «È l'estate, / fredda, dei morti» (vv. 11-12). Propriamente è definibile come un ossimoro, ma non vi si può ravvisare un semplice gioco retorico: al contrario essa allude al nucleo profondo della poesia, l'apparenza di vita della natura che cela in realtà la presenza della morte. Non a caso quindi è posta in chiusura, a suggellare l'intero componimento, in contrapposizione alle immagini vitali e gioiose, ma puramente illusorie, che lo aprivano. Novembre quindi dimostra come solo apparentemente la poesia di Myricae (e quella pascoliana in generale) sia poesia semplice, fatta di piccole cose osservate con occhio candido e ingenuo. È questa un'immagine riduttiva di Pascoli che ha avuto credito, ma che oggi appare decisamente superata. In realtà anche i quadretti più impressionistici celano un sistema complesso di significati e rivelano una sensibilità tormentata, torbida e complicata, una visione del mondo angosciata e stravolta. È l'«oscuro tumulto della nostra anima» ad avere la meglio sulla visione fresca e ingenua del <<fanciullino»>. La struttura linguistica Alla sensibilità complessa e tormentata risponde la struttura linguistica della poesia pascoliana, una struttura che innova profondamente la tradizione del linguaggio poetico italiano. Il tessuto connettivo della sintassi si frantuma, attraverso le continue ellissi dei verbi copulativi («Gemmea l'aria>>, <<il sole così chiaro»>, <«<e vuoto il cielo») o l'uso dello stile nominale («Silenzio, intorno»). La struttura sintattica è essenzialmente una struttura logica, fatta di precisi nessi e rapporti, tra soggetto, predicato e complementi, tra proposizioni principali e subordinate. La sua frantumazione è dunque la negazione di ogni tessuto logico, la ricerca di un discorso alogico, fatto di lampi intuitivi, di illuminazioni momentanee, frammentarie, collegate tutt'al più da segrete analogie e corrispondenze. All'effetto contribuisce anche il fatto che il periodo e l'unità ritmica del verso sono continuamente spezzati da pause, segnate da una fitta interpunzione. Questa frantumazione, impedendo la facile scorrevolezza del discorso, dà un senso di fatica angosciata e vale a rendere la conflittualità tormentosa che si cela al fondo dell'anima pascoliana.