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Canti I, II, XVI, XXVIII e XXX canto del Purgatorio - Divina Commedia (Dante Alighieri)

Canti I, II, XVI, XXVIII e XXX canto del Purgatorio - Divina Commedia (Dante Alighieri)

 Dante Alighieri
Purgatorio
primo canto
proemio della cantica (1-12)
La nave dell'ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele de

Canti I, II, XVI, XXVIII e XXX canto del Purgatorio - Divina Commedia (Dante Alighieri)

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Giuseppe Cappai

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Appunti sui canti I, II, XVI, XXVIII e XXX canto del Purgatorio - Divina Commedia (Dante Alighieri)

 

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Appunto

Dante Alighieri Purgatorio primo canto proemio della cantica (1-12) La nave dell'ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele dell'Inferno e a percorrere acque migliori, poiché il poeta sta per cantare del secondo regno dell'Oltretomba (il Purgatorio) in cui l'anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. La poesia morta deve quindi risorgere e Dante invoca le Muse, in particolare Calliope, perché lo assistano con lo stesso canto con cui vinsero sulle figlie di Pierio trasformandole in gazze. dante osserva le quattro stelle. catone (13-39) L'aria, pura fino all'orizzonte, ha un bel colore di zaffiro orientale e restituisce a Dante la gioia di osservarlo, non appena lui e Virgilio sono usciti fuori dall'Inferno che ha rattristato lo sguardo e il cuore del poeta. La stella Venere illumina tutto l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci che la segue. Dante si volta alla sua destra osservando il cielo australe, e vede quattro stelle che nessuno ha mai visto eccetto i primi progenitori. Il cielo sembra gioire della loro luce e l'emisfero settentrionale dovrebbe dolersi dell'esserne privato. Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui è ormai tramontato il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a sé un vecchio (Catone) dall'aspetto molto autorevole. Ha la barba...

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Didascalia alternativa:

lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto. La luce delle quattro stelle illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole. rimprovero di catone e risposta di virgilio (40-84) Il vecchio si rivolge subito ai due poeti chiedendo chi essi siano, scambiandoli per due dannati che risalendo il corso del fiume sotterraneo sono fuggiti dall'Inferno. Chiede chi li abbia guidati fin lì, facendoli uscire dalle profondità della Terra, domandandosi se leggi infernali siano prive di valore o se in Cielo sia stato deciso che i dannati possono accedere al Purgatorio. A questo punto Virgilio afferra Dante e lo induce a inchinarsi di fronte a Catone, abbassando sguardo in segno di deferenza. Quindi il poeta latino risponde di non essere venuto lì di sua iniziativa, ma di esserne stato incaricato da una beata (Beatrice) che gli aveva chiesto di soccorrere Dante e fargli da guida. In ogni caso, poiché Catone vuole maggiori spiegazioni, Virgilio sarà ben lieto di dargliele: dichiara che Dante non è ancora morto, anche se per i suoi peccati ha rischiato seriamente la dannazione; Virgilio fu inviato a lui per salvarlo e non c'era altro modo se non percorrere questa strada. Gli ha mostrato tutti i dannati e adesso intende mostrargli le anime dei penitenti che si purificano sotto il controllo di Catone. Sarebbe lungo spiegare tutte le vicissitudini passate all'Inferno: il viaggio dantesco è voluto da Dio e Catone dovrebbe gradire la sua venuta, dal momento che Dante cerca la libertà che è preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita. Catone, che in nome di essa si suicidò a Utica pur essendo destinato al Paradiso, dovrebbe saperlo bene. Virgilio ribadisce che le leggi di Dio non sono state infrante, poiché Dante non è morto e lui proviene dal Limbo dove si trova la moglie di Catone, Marzia, che è ancora innamorata di lui. Virgilio prega Catone di lasciarli andare in nome dell'amore per la moglie, promettendo di parlare di lui alla donna una volta che sarà tornato nel Limbo. replica di catone a virgilio (85-111) Catone risponde di aver molto amato Marzia in vita, tanto che la donna ottenne sempre da lui ciò che voleva, ma adesso che è confinata al di là dell'Acheronte non può più commuoverlo, in forza di una legge che fu stabilita quando lui fu tratto fuori dal Limbo. Tuttavia, poiché Virgilio afferma di essere guidato da una donna del Paradiso, è sufficiente invocare quest'ultima e non c'è bisogno di ricorrere a lusinghe. Catone invita dunque i due poeti a proseguire, ma raccomanda Virgilio di cingere i fianchi di Dante con un giunco liscio e di lavargli il viso, togliendo da esso ogni segno dell'Inferno, poiché non sarebbe opportuno presentarsi in quello stato davanti all'angelo guardiano alla porta del Purgatorio. L'isola su cui sorge la montagna, nelle sue parti più basse dov'è battuta dalle onde, è piena di giunchi che crescono nel fango, in quanto tale pianta è l'unica che può crescere lì col suo fusto flessibile. Dopo che i due avranno compiuto tale rito non dovranno tornare in questa direzione, ma seguire il corso del sole che sta sorgendo e trovare così un facile accesso al monte. Alla fine delle sue parole Catone svanisce e Dante si alza senza parlare, accostandosi a Virgilio. virgilio lava il viso di dante e lo cinge con un giunco (112–136) Virgilio dice a Dante di seguire i suoi passi e lo invita a tornare indietro, lungo il pendio che da lì conduce alla parte bassa della spiaggia. È ormai quasi l'alba e sta facendo giorno, così che Dante può guardare in lontananza il tremolio della superficie del mare. Lui e Virgilio proseguono sulla spiaggia deserta, come qualcuno che finalmente torna alla strada che aveva perso: giungono in un punto in cui la rugiada è all'ombra e ancora non evapora. Virgilio pone entrambe le mani sull'erba bagnata e Dante, che ha capito cosa vuol fare il maestro, gli porge le guance bagnate ancora di lacrime. Virgilio gli lava il viso e lo fa tornare del colore che l'Inferno aveva coperto, quindi i due raggiungono il bagnasciuga e il maestro estrae dal suolo un giunco, col quale cinge i fianchi di Dante proprio come Catone gli aveva chiesto di fare. Con grande meraviglia di Dante, là dove Virgilio ha strappato il giunco ne rinasce subito un altro. interpretazione complessiva del primo canto Il Canto si apre col proemio della II Cantica, in modo analogo al Canto II dell'Inferno in cui Dante aveva invocato genericamente le Muse: qui il poeta chiede l'assistenza di Calliope, la Musa della poesia epica che dovrà guidare la navicella del suo ingegno in un mare meno «crudele» di quello dell'Inferno che si è lasciato alle spalle (la metafora della poesia come di una nave che solca il mare era un tòpos già della letteratura classica e tornerà nell'esordio del Canto II del Paradiso). Rispetto al proemio dell'Inferno, quello del Purgatorio è più ampio e si arricchisce del mito delle figlie del re della Tessaglia Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo poi trasformate in uccelli dal verso sgraziato (le piche, cioè le gazze); Dante avvisa il lettore dell'innalzamento della materia rispetto alla | Cantica, ma ribadisce ulteriormente che il suo canto dovrà essere assistito dall'ispirazione divina, di cui le Muse sono personificazione, e che la sua poesia non avrà certo l'ardire di gareggiare follemente con Dio nel descrivere la dimensione dell'Oltretomba, troppo elevata per essere pianemente compresa dall'intelletto umano (è la concezione dell'arte del Medioevo che tornerà a più riprese nel corso della Cantica, nonché un preannuncio della poetica dell'inesprimibile che sarà al centro del Paradiso). Il primo dato che si offre al poeta è visivo, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa all'Inferno e Dante può respirare di nuovo aria pura, ammirando il cielo prima dell'alba che è di un bell'azzurro intenso; è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che avrà per lui lo stesso effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce Dante e gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cadinali, ovvero fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, il cui pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre ora c'è un altro monte che dovrà ascendere con la guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicità terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda volutamente quello del Canto iniziale dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la perduta strada, che altro non è se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto perdere nella selva oscura. La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del Purgatorio che accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve (è Virgilio a dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplenderà il Giorno del Giudizio, quando sarà ammesso in Paradiso). In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia. Dante, più semplicemente, vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della lotta per la libertà dal peccato, che è il motivo essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al giudizio divino imperscrutabile, come si è visto in alcuni casi nell'Inferno (Brunetto Latini, Guido da Montefeltro) e come si vedrà nel caso ancor più «scandaloso» rappresentato da Manfredi, protagonista del Canto III. Del resto Dante afferma chiaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta peccaminosa era già collocato fra gli antichi spiriti che si erano distinti per il possesso delle virtù terrene, come Virgilio; e la sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i suoi lunghi capelli e la barba che Dante trovava peraltro nella rappresentazione che di lui offre Lucano nel Bellum Civile (II, 373-374). I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della I Cantica in una sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso è un'abile suasoria con tanto di “captatio benevolentiae" in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio come atto di suprema protesta per la libertà politica, gli rammenta che lui è comunque salvo e cita la moglie Marzia che lui ha conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetterà nel Purgatorio. Il discorso di Virgilio è sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha più alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il viaggio di Dante è Beatrice, che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia. Dante può quindi procedere, ma non prima di aver compiuto un duplice atto rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovrà lavare il viso, sporco del fumo dell'Inferno e delle lacrime che l'hanno segnato in più di un'occasione, e dovrà anche cingere i fianchi di un giunco liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina. Il giunco è la sola pianta a crescere sul bagnasciuga della spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde (segno anch'esso di sottomissione, come dimostra il fatto che il giunco è poi definito umile pianta); Dante se ne deve cingere i fianchi dopo essersi già liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare Gerione alla fine del Canto XVI dell'Inferno. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso significato allegorico, ma il rito conclude il Canto preannunciando ciò che avverrà negli episodi successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto diverse rispetto a quelle del doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale qual era, il che riempie Dante di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle (giova ricordare in quale ben diversa atmosfera Dante aveva strappato un altro ramoscello, quello di un albero della selva dei suicidi nel Canto XIII dell'Inferno, episodio dal quale siamo evidentemente lontanissimi). secondo canto descrizione dell'alba, apparizione dell'angelo (1-36) Il sole sta ormai tramontando all'orizzonte di Gerusalemme, il cui cerchio meridiano sovrasta la città col suo punto più alto, e la notte, che gira opposta al sole, sorge dal Gange nella costellazione della Bilancia, in cui non si trova più quando essa supera per durata il giorno; così sulla spiaggia del Purgatorio l'aurora diventa da rossa progressivamente arancione. Dante e Virgilio sono ancora sul bagnasciuga, pensando al cammino che devono intraprendere, quando al poeta pare di vedere sul mare una luce simile a quella di Marte quando è velato dai vapori che lo avvolgono, che si muove rapidissima verso la riva. Dante distoglie un attimo lo sguardo per parlare a Virgilio, e quando torna a guardare la luce la vede più splendente e più grande. In seguito ai lati di essa compare qualcosa di bianco e un altro biancore al di sotto: il maestro resta in silenzio, fino a quando capisce che il primo biancore sono delle ali e allora grida a Dante di inginocchiarsi e di unire le mani in preghiera, perché si avvicina un angelo del Paradiso. Virgilio spiega a Dante che l'angelo non usa remi né vele o altri strumenti umani, ma tiene le ali aperte e dritte verso il cielo, fendendo l'aria con penne eterne che non cadono mai. incontro con le anime dei pententi (37-75) Man mano che l'angelo si avvicina e diventa più visibile a Dante, questi non riesce a sostenerne lo sguardo e deve volgere gli occhi a terra. Poi il nocchiero celeste viene a riva spingendo una barchetta così leggera che non affonda minimamente nell'acqua; l'angelo sta a poppa e nella barca di sono più di cento anime, che intonano a una voce il Salmo In exitu Israel de Aegytpo. L'angelo fa loro il segno della croce, quindi le anime si gettano sulla spiaggia e il nocchiero riparte con la stessa velocità con cui è giunto. La folla delle anime si guarda intorno, come qualcuno inesperto di un luogo, mentre il sole è ormai alto e la costellazione di Capricorno sta già declinando dalla metà del cielo. I nuovi arrivati si rivolgono ai due poeti chiedendo di mostrargli la via per il monte, ma Virgilio li informa che anch'essi sono appena arrivati in quel luogo, attraverso una via talmente aspra che l'ascesa del monte sembrerà uno scherzo. Le anime si accorgono che Dante respira ed è vivo, impallidendo per lo stupore: esse si accalcano intorno a lui per la curiosità, come fa la gente attorno al messaggero che porta notizie di pace, quasi dimenticandosi di accedere al monte per purificarsi dai loro peccati. incontro con casella (76-111) Dante vede una della anime farsi avanti per abbracciarlo, il che spinge il poeta a fare altrettanto, ma i suoi tre tentativi vanno a vuoto in quanto le braccia attraversano lo spirito, inconsistente, e tornano al suo petto. Dante è stupito e l'anima sorride, invitandolo a separarsi dagli altri penitenti. Il poeta lo segue e i due si appartano, finché Dante lo riconosce come l'amico Casella e lo prega di fermarsi un poco a parlargli: il penitente risponde dicendo che gli vuole bene da morto come da vivo, e gli chiede perché si trova in quel luogo. Dante risponde che fa questo viaggio per salvarsi l'anima e chiede a sua volta a Casella perché giunga solo ora in Purgatorio dopo la sua morte. Il penitente spiega che non gli è stato fatto alcun torto se l'angelo nocchiero gli ha negato più volte di condurlo lì, poiché la sua volontà è conforme a quella di Dio. In realtà, spiega, da tre mesi l'angelo ha raccolto tutti quelli che hanno voluto salire sulla barca: è stato allora che Casella è stato preso alla foce del Tevere, dove si raccolgono tutte le anime non destinate all'Inferno e dove l'angelo si è diretto dopo aver lasciato la spiaggia del Purgatorio. A questo punto Dante prega Casella, se una nuova legge non glielo vieta, di confortarlo col suo canto come faceva quand'era in vita, poiché il poeta è giunto lì con tutto il corpo ed è quindi particolarmente affaticato. il canto di casella. rimprovero di catone (112-133) Casella inizia a intonare la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, cantando con tale dolcezza che essa è ancora presente nell'animo di Dante. Non solo lui, ma anche Virgilio e tutte le anime stanno ad ascoltare il canto di Casella, contenti e appagati come se non avessero altri pensieri. Sono tutti attenti alle note, quando ricompare all'improvviso Catone che rimprovera aspramente le anime, accusandole di lentezza e negligenza e spronandole a correre al monte per purificarsi dai peccati che impediscono loro di vedere Dio. Le anime fuggono disordinatamente verso il monte, come quando i colombi, che stanno beccando tranquillamente il loro pasto, sono spaventati da qualcosa e volano via d'improvviso, e anche i due poeti scappano allo stesso modo. interpretazione complessiva del secondo canto Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, che corrispondono all'arrivo dell'angelo nocchiero con la barca dei penitenti e all'incontro col musico Casella, che si conclude col rimprovero di Catone che, come si vedrà, non è privo di significato allegorico. L'episodio è aperto dall'ampia e complessa descrizione astronomica dell'alba, che rappresenta un piccolo proemio dopo quello della Cantica del Canto I: Dante descrive il sole e la notte come due figure astronomiche che percorrono la stessa strada ai punti opposti del cielo, per cui il sole sta tramontando sull'orizzonte di Gerusalemme e la notte spunta sul Gange, il punto estremo dell'Occidente; essa è in congiunzione con la costellazione della Bilancia che, metaforicamente, tiene in mano, mentre le cade di mano quando supera in durata il giorno (vuol dire che dopo l'equinozio di autunno è il sole ad essere in congiunzione con la Bilancia). L'immagine si completa con quella dell'Aurora, personificata come la dea classica, che è rossastra quando il sole sta per sorgere e diventa giallo-arancione ora che sull'orizzonte del Purgatorio è l'alba. La metafora astronomica proseguirà a metà circa del Canto, quando Dante spiegherà che il sole è salito nel cielo tanto da aver cacciato il Capricorno dallo zenit, dardeggiando con le sue saette ogni punto della spiaggia. A questo inizio stilisticamente sostenuto segue poi l'apparizione dell'angelo nocchiero, non a caso introdotta anch'essa da un'immagine astronomica (quella di Marte che rosseggia talvolta nel cielo del mattino, temperato dai vapori che lo avvolgono). È il primo incontro con un ministro celeste e la sua apparizione avviene per gradi, con la descrizione della luce che si muove rapidissima, del biancore che appare ai suoi lati (le ali) e al di sotto (la veste), infine con Virgilio che invita Dante a inginocchiarsi in segno di riverenza poiché ormai vedrà di sì fatti officiali. Quasi tutti i commentatori hanno sottolineato l'enorme differenza tra questo traghettatore e il nocchiero infernale Caronte, che trasportava le anime dannate al di là dell'Acheronte: l'angelo non usa strumenti umani, non ha remi né vele, si limita a spingere da poppa la barca che non affonda nell'acqua e dentro la quale più di cento anime intonano il Salmo che rievoca la fuga degli Ebrei dall'Egitto (il fatto era interpretato come allegoria della liberazione dal peccato). Il vasello snelletto è leggiero è il lieve legno che dovrà portare Dante in Purgatorio, come lo stesso Caronte gli aveva predetto in Inf., III, 91-93 e da esso le anime si accalcano sulla riva, inesperte del luogo e incerte sulla direzione da prendere; si stupiscono nel vedere che Dante è vivo e gli si accalcano intorno come un messaggero che porta buone notizie (è uno schema che si ripeterà più volte nei primi Canti del Purgatorio, in totale difformità dagli incontri con i dannati che erano dominati da sentimenti ben diversi). L'incontro con l'amico e musico fiorentino Casella è primo colloquio con l'anima di un penitente nel secondo regno, e l'episodio costituisce una pausa narrativa caratterizzata da grande serenità e pace dopo l'asprezza della discesa attraverso l'Inferno. Al di là della difficile identificazione del personaggio, su cui si sono fatte varie congetture, il dato significativo è il grande affetto che egli ancora dimostra a Dante (che tenta inutilmente tre volte di abbracciarlo, con evidente imitazione di due passi virgiliani), mentre l'incontro dà modo a Dante di puntualizzare alcune cose fondamentali circa il destino delle anime non dirette all'Inferno: è Casella a spiegare che le anime salve si raccolgono alla foce del Tevere, dove l'angelo raccoglie chi lui vuole e quando vuole, secondo la imperscrutabile volontà divina, il che giustifica il fatto che lui giunga solo ora in Purgatorio (la cosa aveva stupito Dante, che lo sapeva morto da qualche mese). L'indizione per l'anno 1300 del Giubileo da parte di Bonifacio VIII ha permesso a tutte le anime di salire sulla barca ed è per questo che Casella ha potuto fare il suo arrivo in Purgatorio: Dante gli chiede di cantare per lui, per confortarlo della fatica del viaggio che sta compiendo, e l'amico esaudisce la sua preghiera intonando la canzone Amor che ne la mente mi ragiona (quella commentata nel III Trattato del Convivio), che probabilmente lui stesso aveva musicato. La canzone, forse dedicata inizialmente a Beatrice e rientrante nei canoni dello Stilnovo, nel Convivio era stata reinterpretata allegoricamente alla luce della donna gentile e della Filosofia, quindi rimanda al periodo del cosiddetto «traviamento» di Dante e del peccato che la stessa Beatrice gli rifaccerà nei Canti finali del Purgatorio; il canto di Casella è così melodioso che tutti, incluso Virgilio, si attardano ad ascoltarne le note, come se nessun altro pensiero toccasse loro la mente, avvinti dal potere della musica che Dante, proprio nel Convivio, descriveva come irresistibile. È a questo punto che si inserisce il duro rimprovero di Catone, che riappare all'improvviso e mette fine al canto esortando gli spiriti a non essere lenti, a non peccare di negligenza indugiando ad ascoltare la bella musica invece di correre al monte per iniziare il percorso di purificazione. Il richiamo non è casuale e si comprende alla luce del significato che alla musica e all'arte in genere era assegnato nel Medioevo: fine dell'arte non è quello di dare piacere o quetar tutte le voglie dando appagamento all'anima, come per lo più ritiene la concezione moderna, bensì quello di fornire un utile ammaestramento e insegnamento di carattere morale per raggiungere la salvezza. Ogni manifestazione artistica che distolga l'animo umano dai suoi doveri e lo appaghi inducendo a dimenticarsi dei propri obblighi non solo è disdicevole, ma addirittura pericolosa sul piano religioso: in questo senso va interpretato il rimprovero di Catone, così come la reazione delle anime che scappano disordinatamente verso il monte (inclusi Dante e Virgilio); il fatto che la canzone scelta da Dante fosse dedicata alla Filosofia e sia tratta dal Convivio non è forse del tutto casuale, poiché è probabile che quell'opera costituisse un tentativo pericoloso sul piano dottrinale di arrivare alla verità non attraverso la grazia e la teologia, ma esclusivamente con l'uso della ragione umana. Dante respinge quindi qualsiasi concezione dell'arte, inclusa la poesia, di carattere puramente edonistico e non finalizzata alla salvezza spirituale, come del resto già aveva fatto nell'episodio di Paolo e Francesca che stavano leggendo per diletto la storia di Lancillotto e Ginevra ed erano caduti nel peccato: il canto solitario di Casella si contrappone a quello del Salmo che tutte le anime avevano intonato a una voce, il cui scopo non era però quello di consolare l'anima afflitta ma celebrare la liberazione dal peccato e dai vincoli terreni (e un analogo discorso sull'arte, soprattutto su quella figurativa e sulla poesia, verrà affrontato anche nei Canti X, XI e XII dedicati ai ai superbi della I Cornice, per comprendere il quale sarà indispensabile tener presente proprio la natura morale del richiamo di Catone). sedicesimo canto il fumo della terza cornice, preghiera degli iracondi (1-24) Dante e Virgilio avanzano lungo la III Cornice, attraverso il denso fumo che rende quel luogo più buio di una notte priva di qualunque stella e irrita fortemente gli occhi del poeta, che è costretto a chiuderli e ad appoggiarsi al maestro. Dante cammina come un cieco, seguendo la sua guida senza vedere nulla e Virgilio gli raccomanda di non separarsi da lui. Sente delle voci che invocano pace e misericordia, intonando le prime parole dell'Agnus Dei in modo tale che dimostrano un'assoluta concordia. Dante chiede a Virgilio se a parlare sono dei penitenti e il maestro risponde di sì, aggiungendo che si tratta degli iracondi. incontro con marco lombardo (25-51) Uno dei penitenti si rivolge a Dante e gli chiede chi sia, visto che attraversa il fumo come se fosse ancora vivo. Virgilio esorta il discepolo a rispondere, chiedendo se quella è la direzione giusta per salire, e Dante dice allo spirito che ha parlato che, se lo seguirà, udirà qualcosa che lo stupirà molto. Il penitente dichiara che seguirà Dante fin tanto che potrà e se anche il fumo non gli permetterà di vederlo, il suono della voce li terrà uniti. Dante a questo punto dice di essere giunto in Purgatorio col proprio corpo mortale dopo aver attraversato l'Inferno, in virtù di una speciale grazia di Dio che vuole mostrargli i regni dell'Oltretomba in modo del tutto eccezionale. Dante prega il penitente di rivelare il proprio nome e di confermare se stanno seguendo la giusta direzione per l'accesso alla Cornice seguente. Lo spirito dichiara di chiamarsi Marco Lombardo, che in vita fu uomo di mondo e conobbe quella virtù cortese che ormai tutti hanno abbandonato. Egli aggiunge che in quella direzione si arriva alla scala e chiede a Dante di pregare per lui, una volta che sarà giunto in Paradiso. spiegazione di marco sul libero arbitrio (52-81) Dante promette di fare quel che Marco gli chiede, ma lo prega a sua volta di sciogliere un dubbio che lo assale e che è raddoppiato a causa delle sue parole, dopo essere stato suscitato da quelle di Guido del Duca. Il mondo è privo di ogni virtù cavalleresca, come Marco ha dichiarato, e pieno di malizia; Dante vorrebbe saperne la ragione per mostrarla agli altri, poiché alcuni la attribuiscono alle influenze celesti e altri alla condotta degli uomini. Marco emette un forte sospiro e un verso di disappunto, quindi afferma che il mondo è cieco e Dante sembra proprio venire da lì. Gli uomini, infatti, riconducono la causa di tutto al cielo, come se esso determinasse necessariamente gli eventi: ma se così fosse il libero arbitrio sarebbe nullo, e non sarebbe giusto essere premiati per la virtù e puniti per la colpa. Il cielo, prosegue Marco, dà inizio alle azioni umane, almeno ad alcune, ma in ogni caso l'uomo può scegliere tra bene e male, e la volontà è in grado di vincere ogni disposizione celeste. Gli uomini sono dunque guidati dal proprio intelletto, che è una forza ben maggiore di quella delle influenze astrali. causa politica della corruzione umana (82-114) Se il mondo attuale è degenere, la causa è dunque tutta degli uomini e Marco lo può dimostrare chiaramente. Egli spiega a Dante che l'anima, una volta creata, è come una fanciulla inconsapevole, che è mossa dalla bontà di Dio e si indirizza verso ciò che le dà piacere. Essa rivolge il proprio amore anche a beni materiali e sbagliati, se non viene frenata e guidata opportunamente: per questo esistono le leggi ed è necessario che un sovrano le applichi con rigore. Le leggi nel mondo esistono, ma chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento che il papa guida il gregge dei fedeli, confondendo però il potere spirituale con quello temporale. Il popolo vede che il pontefice corre dietro ai beni terreni, quindi fa altrettanto e non chiede altro; dunque la causa del male del mondo è la cattiva condotta degli uomini e non la cattiva influenza dei cieli. Roma aveva due soli (l'imperatore e il papa) che illuminavano due diverse strade, quella del mondo e quella di Dio: essi si sono spenti a vicenda, perché la spada si è unita al pastorale e questo connubio è decisamente negativo, poiché i due poteri non si temono l'un l'altro. i tre vecchi, simbolo di antica virtu' (115-145) Per confermare quanto ha detto, Marco aggiunge che nel paese (Lombardia) attraversato da Adige e Po regnavano valore e cortesia, prima che Federico II fosse ostacolato dalla Chiesa. Ora invece qualunque uomo malvagio può passare di lì, sicuro di non incontrare alcun uomo virtuoso. Ci sono ancora tre vecchi in cui l'età antica rimprovera quella nuova, tanto che desiderano ormai passare a miglior vita: sono Corrado da Palazzo, il buon Gherardo e Guido da Castello, quest'ultimo meglio conosciuto come il semplice Lombardo. Si può concludere che la Chiesa cade nel peccato, volendo confondere in sé i due poteri. Dante risponde dicendo che il ragionamento di Marco è veritiero, e che comprende perché i sacerdoti ebrei furono esclusi dall'eredità dei beni temporali; tuttavia chiede chi sia il Gherardo che, secondo il penitente, rimprovera al presente la sua mancanza di virtù. Marco ribatte che o non ha capito le parole di Dante, oppure il poeta lo stuzzica per fargli dire altro, poiché il poeta parla toscano e afferma di non conoscere Gherardo. Non saprebbe indicarlo con altro soprannome, se non dicendo che la figlia ha nome Gaia. A questo punto Marco si congeda dai due poeti, in quanto vede attraverso il fumo la luce del sole e deve allontanarsi prima di apparire all'angelo che si trova lì. Il penitente se ne va senza ascoltare altro. interpretazione complessiva del tredicesimo canto Il Canto ha argomento prevalentemente politico, prendendo le mosse da un dubbio di Dante che si ricollega alle parole con cui Guido del Duca nel XIV aveva criticato la decadenza morale della sua Romagna e quella politica di Toscana, mentre qui le accuse del protagonista Marco Lombardo saranno rivolte contro la Lombardia, ovvero la Pianura Padana da cui proveniva. Quella di Marco è una voce che Dante ascolta nel buio della Cornice, in cui procede come un cieco appoggiato a Virgilio: è chiaro il contrappasso della pena (l'ira acceca la mente e porta ad atti inconsulti), così come la necessità di seguire strettamente la ragione, simboleggiata in questo caso dal poeta latino. L'oscurità del fumo è descritta attraverso una serie di similitudini per contrasto, col dire che neppure un cielo notturno e privo di stelle, tutto coperto di nuvole, potrebbe rendere l'idea del buio della Cornice; Dante sente solo le voci degli iracondi, che intonano le prime parole dell'Agnus Dei che ben si adatta alla loro espiazione, dal momento che Cristo è invocato come esempio supremo di mansuetudine e prontezza al sacrificio, mentre i penitenti sembrano assolutamente concordi. L'incontro con Marco Lombardo dà modo a Dante di affrontare un complesso e delicato discorso politico e dottrinale, che il poeta affida a un personaggio di scarso spessore biografico: di lui si sa solo che fu un uomo di corte del nord Italia molto saggio e valente, citato in alcuni racconti del Novellino, che secondo alcuni commentatori ebbe una condizione simile a quella di Dante durante l'esilio, costretto a diventare anch'egli cortigiano presso signori di «Lombardia» e Romagna. Può essere questa la chiave di lettura che spiega la scelta dell'interlocutore per affrontare il discorso sul libero arbitrio e poi la confusione dei due poteri, che come detto si riallaccia al lamento di Guido del Duca circa la decadenza delle virtù cavalleresche nell'attuale civiltà comunale. Dante ha un dubbio che lo tormenta, se cioè tale declino morale sia da imputare alla condotta umana o a quelle influenze celesti che la dottrina cristiana ammetteva: Marco spiega che gli influssi astrali esistono, ma non sono certo tali da determinare di necessità le azioni umane, il che renderebbe ingiusto premiare la virtù e punire il peccato. Dante segue strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo che è perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti una responsabilità che essi non hanno; se il mondo è dominato dal vizio la colpa è degli uomini, punto che naturalmente è centrale nell'architettura morale del poema come di tutto il pensiero religioso e dottrinale di Dante. A conferma di ciò, Marco affronta poi il delicato problema del rapporto tra potere spirituale e temporale: l'uomo è naturalmente portato a ricercare il proprio bene, il che spesso lo porta a peccare (ciò è spiegato attraverso la dottrina della creazione delle anime, in cui Dante segue san Tommaso e polemizza con la teoria platonica delle idee innate), per cui è necessario che vi siano le leggi che lo tengono a freno e correggono la sua condotta. Nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico, ovvero dall'imperatore: ma la sede imperiale in Italia è vacante dalla morte di Federico II di Svevia, per cui le leggi ci sono ma nessuno le fa rispettare, come già aveva duramente affermato nei Canti VI e VII. La responsabilità di ciò è attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare è condannato l'atteggiamento teocratico di Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. Ciò è causa, per Dante, dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema è una denuncia, come del resto aveva detto nel Canto VI con l'immagine del cavallo la cui sella è vuota e che viene condotto a mano per le briglie dalla Chiesa; Dante si rifà qui anche alla teoria dei «due soli»> espressa in termini lievemente diversi nella Monarchia, dicendo cioè che il papa e l'imperatore brillano di luce propria e derivano entrambi la loro autorità da Dio, mentre nel trattato politico aggiungerà che l'imperatore deve semplicemente una certa deferenza al pontefice, come un figlio al proprio padre. Nella visione di Dante diverso è il fine delle due autorità, dal momento che il papa deve guidare i fedeli alla felicità eterna, mentre l'imperatore deve applicare le leggi e assicurare a tutti la giustizia: ciò può avvenire solo se le due autorità sono distinte e indipendenti, reciprocamente autonome, non se il papa pretende di governare senza averne le capacità (egli può rugumare, conoscere le Sacre Scritture, ma non ha l'unghie fesse, non distingue come dovrebbe i due poteri, finendo per dare un pessimo esempio ai fedeli che lo vedono correre dietro i beni terreni). Il tema è di importanza centrale e sarà più ampiamente affrontato nel Canto XIX del Paradiso, nel Cielo di Giove dove trionfa la giustizia: qui Marco Lombardo cita l'esempio della sua terra come conferma di quanto ha detto, affermando che la Lombardia (nel senso di Italia del nord, di Pianura Padana) un tempo brillava per virtù cavalleresche, poi è caduta in decadenza dopo che la Chiesa e i Comuni guelfi diedero briga all'imperatore Federico II, opponendosi di fatto alla sua autorità politica. Solo tre personaggi dimostrano le antiche virtù e rimproverano il declino morale del presente, tre vecchi che sono esempio della cortesia rimpianta e destinata a scomparire: i loro nomi sono una nostalgica rievocazione di un passato che non esiste più, facendo eco al discorso di Guido del Duca e alla sua rassegna dei nobili personaggi della Romagna antica, con la sola differenza che questi sono ancor vivi e non vedono l'ora di passare a miglior vita. Si è molto discusso sull'effettivo valore morale di questi tre personaggi, di cui Dante tace o ignora alcuni misfatti politici, ma è chiaro che qui prevale l'ammirazione per l'esercizio delle virtù cavalleresche in cui essi si distinsero; in particolare, Gherardo da Camino ebbe rapporti con Corso Donati, il che spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante che mostra di non conoscerlo. Marco lo indica come il padre di una certa Gaia, il che potrebbe avere valore ironico in quanto la giovane è citata da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se così fosse, le parole di Marco vorrebbero sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri non è stato ereditato dai figli (è, in fondo, lo stesso discorso già affrontato da Guido del Duca nel parlare della decadenza morale della Romagna, quindi non sorprende che qui Dante segua la stessa linea). ventottesimo canto virgilio spiega la natura dell'amore (1-21) Virgilio pone fine alla sua spiegazione e osserva Dante per vedere se è soddisfatto. Il discepolo vorrebbe ulteriori chiarimenti, ma tace per timore di irritare il maestro con altre domande, finché il poeta latino capisce il suo desiderio e lo invita a parlare liberamente. Dante dichiara di aver ben compreso la precedente spiegazione, ma di voler conoscere in modo più dettagliato la natura dell'amore, cui Virgilio riconduce ogni azione virtuosa e ogni peccato. Il maestro esorta Dante ad ascoltare attentamente, così da capire l'errore dei falsi maestri, quindi dichiara che l'anima umana si volge naturalmente verso ciò che le piace, non appena la cosa piacevole pone in atto la sua disposizione ad amare. L'intelletto umano è attratto dalle cose reali e fa piegare l'anima verso di esse: se ciò avviene, quel piegarsi è amore ed è del tutto naturale. Quindi, come il fuoco è destinato a salire in alto per la sua natura, così l'anima presa da amore si volge verso la cosa amata, per tutto il tempo in cui questa gli procura gioia. Dante può allora capire quanto sbagliano coloro che considerano lodevole qualsiasi amore, dal momento che forse può essere buona la disposizione ad amare, ma non necessariamente lo è la sua attuazione. amore e libero arbitrio (22-51) Dante afferma che le parole di Virgilio gli hanno spiegato cos'è l'amore, tuttavia hanno accresciuto i suoi dubbi: infatti, se l'anima ama ciò che le è offerto dalla realtà esterna e obbedisce a un impulso naturale, ciò non può essere considerato una colpa. Virgilio premette che la sua risposta atterrà esclusivamente alla filosofia, mentre per una spiegazione dottrinale Dante è rimandato alle chiose di Beatrice. Egli spiega che ogni anima ha in sé una disposizione che non è avvertita se non agisce, e si manifesta solo attraverso i suoi effetti. Dunque l'uomo ignora la provenienza delle prime nozioni innate e l'amore dei primi beni, che sono innati come nelle api la tendenza a produrre il miele, il che non è motivo di lode o biasimo. Affinché a questa prima inclinazione si conformi ogni altro desiderio, l'uomo ha la ragione che deve governare la volontà e deve dare o negare il proprio assenso agli impulsi naturali. Questo è il principio da cui deriva la colpa o il merito, a seconda che la ragione distingua gli amori buoni da quelli cattivi. I filosofi compresero bene questa libertà e basandosi su di essa elaborarono la morale: quindi, supponendo che l'uomo sia necessariamente portato ad amare, l'intelletto è in grado di trattenere questa tendenza. Beatrice, conclude Virgilio, dà il nome di libero arbitrio a questa virtù e il maestro esorta Dante a tenerlo a mente. sonnolenza di dante. esempi di sollecitudine (52-84) Ormai è mezzanotte passata e la luna offusca col suo chiarore le stelle, simile a un grosso paiolo di rame, mentre percorre il cielo in senso contrario a quello percorso dal sole quando tramonta tra Sardegna e Corsica (per chi guarda da Roma). Virgilio ha ormai sciolto i dubbi di Dante e questi, soddisfatto dalle sue risposte, è colto da sonnolenza, venendo però subito scosso dalle anime degli accidiosi che corrono dietro i due poeti. La corsa delle anime è paragonata a quella dei Tebani che correvano durante i riti orgiastici in onore di Bacco, lungo i fiumi Ismeno e Asopo in Beozia. I penitenti raggiungono i due poeti e due di loro gridano piangendo gli esempi di sollecitudine di Maria, che si affrettò alla montagna a visitare Elisabetta, e di Cesare, che per sottomettere llerda prima colpì Marsiglia e poi corse in Spagna. Gli altri accidiosi incitano i compagni di pena a non perdere tempo e ad acquistare la grazia divina con le buone azioni. l'abate di san zeno (85-133) Virgilio si rivolge ai penitenti e li definisce anime mosse da un acuto fervore che supplisce alla loro negligenza in vita, quindi dichiara che Dante è ancor vivo e desidera salire alla Cornice seguente appena ci sarà di nuovo la luce del sole, per cui li prega di indicar loro il passaggio. Uno degli spiriti risponde invitandoli a seguirli, poiché essi sono pieni di buona volontà e non possono fermarsi. Egli si presenta come l'abate di San Zeno a Verona, al tempo di Federico Barbarossa che fece distruggere Milano; un tale che è prossimo alla morte (Alberto della Scala) si pentirà di aver avuto potere su quel monastero, poichè vi ha posto come abate suo figlio, menomato nel corpo e nella mente, al posto del prelato che avrebbe dovuto ricoprire quella carica. esempi di accidia punita. dante si addormenta (133-148) Dante non sa se il penitente aggiunga altro o taccia, poiché corre via da loro velocemente, quindi Virgilio invita il discepolo a osservare altri due accidiosi che gridano esempi del peccato punito. Essi, correndo dietro agli altri, gridano che gli Ebrei che furono lenti a seguire Mosè morirono prima di giungere al Giordano, mentre i Troiani che non seguirono Anchise in Italia e si fermarono in Sicilia vissero una vita ingloriosa. Alla fine, quando le anime sono così lontane che non si possono più sentire, Dante passa poco a poco dalla veglia al sonno, iniziando a vaneggiare e a chiudere gli occhi, finché comincia a sognare. interpretazione complessiva del ventottesimo canto Il Canto ha struttura speculare rispetto al precedente, con cui forma una sorta di dittico, poiché a una prima parte didascalica segue una parte narrativa in maniera rovesciata rispetto al XVII (anche qui le due parti sono intervallate dall'indicazione dell'ora, con la discussa descrizione della posizione della luna in cielo). Virgilio completa e integra la spiegazione dottrinale iniziata alla fine del Canto precedente, che riguardava la struttura morale del Purgatorio basata sulla concezione dell'amore: Dante vorrebbe conoscere nel dettaglio la natura di questa inclinazione dell'animo e Virgilio risponde con una complessa spiegazione filosofica, che si rifà ovviamente ad Aristotele e alla Scolastica, per cui l'amore trae spunto dagli oggetti reali del mondo circostante e trasforma in atto la naturale potenza di amare che è innata nell'anima umana, obbedendo così a un impulso che è connaturato al suo essere. Ciò suscita gli ulteriori dubbi di Dante, poiché se l'amore è un'inclinazione naturale verso la cosa che fa gioire, l'uomo non fa che obbedire a un impulso irresistibile e ciò non può essere ascritto a sua colpa, secondo quanto Virgilio aveva detto nel Canto precedente. La chiosa del maestro, che rimanda a Beatrice per ulteriori dettagli in materia dottrinale, è tale da eliminare ogni dubbio: l'uomo è, sì, naturalmente portato ad amare, ma ad essere sempre lodevole è solo la disposizione innata nell'anima, quindi l'amore in potenza, mentre la sua trasformazione in atto (quando l'uomo sceglie l'oggetto verso cui indirizzare il proprio amore) può essere buona o cattiva a seconda della libera scelta della cosa amata e da questo nasce la virtù o il peccato. In altri termini, l'uomo non deve abbandonarsi in modo indiscriminato alle sue inclinazioni ad amare ma deve sottoporre la sua elezione al vaglio della ragione, o, come direbbe Beatrice, del libero arbitrio; Virgilio completa il discorso di Marco Lombardo nel Canto XVI che aveva ridimensionato la necessità dell'influenza astrale sulla condotta umana, mentre il poeta latino esclude quella dell'amore come impulso naturale e irresistibile contro il quale l'uomo non si può opporre (può e deve farlo, invece, in forza della ragione e del libero arbitrio). Il discorso di Dante è di importanza centrale nel Purgatorio e nella struttura del poema, anche perché il poeta prende le distanze da un concetto base della poesia amorosa di cui lui stesso era stato esponente, ovvero la forza irresistibile dell'amore cui è vano opporsi: ciò era stato ampiamente affermato dalla trattatistica amorosa del XIII sec., ad esempio da A. Cappellano nel De amore, e ripreso dalla tradizione poetica provenzale, dai Siciliani e in ultimo dagli Stilnovisti, specie da Guinizelli e Cavalcanti (quest'ultimo aveva affermato non solo la forza irresistibile del sentimento amoroso, ma anche i suoi terribili effetti sull'anima umana, la sua azione distruttiva). Dante si discosta da questa impostazione e afferma che l'amore è lodevole solo quando è ben diretto e deve quindi essere sempre sottoposto al vaglio rigoroso della ragione: è lo stesso principio per cui Francesca e Paolo erano dannati tra i lussuriosi, in quanto i due avevano seguito il cattivo esempio della letteratura erotica (la donna citava Cappellano, ma anche Guinizelli e Dante) e si erano abbandonati al piacere amoroso subordinando ad esso la ragione, motivo per cui hanno perso la speranza della salvezza. Ciò non significa che Dante rinneghi o rifiuti in blocco tutta la poesia dello Stilnovo, tuttavia la sottopone a una revisione critica e ne corregge almeno in parte alcuni principi, affermati da quei cattivi maestri (i ciechi che si fanno duci, secondo le parole di Virgilio) che dovranno essere intesi come gli autori della trattatistica amorosa che molti danni possono causare a chi li segue senza criterio, come appunto era suc sso ai protagonisti del Canto V dell'Inferno. Non è un so che questa digressione preceda e in certo modo prepari l'incontro con Bonagiunta del Canto XXIV, in cui Dante spiegherà in maniera precisa cosa si deve intendere per Dolce Stil Novo, e quello con Guinizelli del Canto XXVI che si troverà proprio fra i lussuriosi del Purgatorio, a scontare la colpa di aver prodotto quella letteratura di cui Francesca era stata avida consumatrice. La seconda parte del Canto è dedicata alla descrizione della pena degli accidiosi, fra cui Dante incontra l'abate di San Zeno, episodio che occupa assai meno spazio rispetto alle altre Cornici e agli altri peccatori visti in precedenza e che si vedranno in seguito. Si è molto discusso sulle possibili ragioni di questa scelta di Dante (che racchiude in soli 51 versi la descrizione dei penitenti, l'incontro con l'abate e gli esempi di sollecitudine e di accidia punita) e che può essere ricondotta a esigenze di carattere strutturali e narrative, nonché al maggior interesse del poeta per peccati profondamente legati al degrado morale del suo tempo, a cominciare dall'avarizia cui saranno dedicati i Canti XIX-XX (e in parte anche i due successivi, attraverso la figura di Stazio che prefigura l'ampia parentesi «letteraria» degli episodi seguenti). La descrizione della IV Cornice rappresenta un momento di pausa narrativa e didascalica che ha l'importante funzione di spiegare l'ordinamento morale del secondo regno, con la digressione filosofica sulla concezione di amore che sarà ripresa nei suoi risvolti poetici e letterari durante gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli; da sottolineare la raccomandazione di Virgilio a Dante circa la necessità di integrare la sua spiegazione con quella teologica di Beatrice, preannunciandone la venuta sulla cima del monte di lì a pochi Canti e anticipando la struttura di tanti dialoghi di argomento dottrinale che avverranno nel Paradiso tra lei e il poeta, con la funzione analoga di chiarire i dubbi di Dante (e del lettore) in materia di fede. trentesimo canto preludio all'apparizione di beatrice (1-21) Quando i sette candelabri che aprono la processione e che sono seguiti da tutti gli altri personaggi si arrestano, i ventiquattro vecchi che precedono il carro rivolgono lo sguardo verso di esso e uno di loro grida tre volte la frase Veni, sponsa, de Libano, imitato dagli altri. Cento angeli si alzano in volo sul carro come in risposta al grido, simili ai beati che il Giorno del Giudizio risorgeranno dalle loro tombe. Essi dicono Benedictus qui venis, gettando fiori sopra e tutt'intorno al carro. apparizione di beatrice. scomparsa di virgilio (22-54) Dante descrive l'apparizione di una donna coperta dalla nuvola di fiori e la paragona a quella del sole che, talvolta, sorge velato da spessi vapori che rendono l'oriente di colore roseo e permettono di fissare lo sguardo sull'astro. La donna indossa un velo bianco e una ghirlanda di ulivo, nonché un mantello verde e una veste color rosso vivo: anche se Dante non l'ha ancora vista in volto in quanto velata, il suo spirito avverte la potenza d'amore ed egli riconosce quella figura come la donna amata in vita, Beatrice. Turbato, si volta alla sua sinistra per dire a Virgilio che ogni goccia del suo sangue sta tremando, ma il poeta latino è scomparso e ciò provoca un enorme dolore al suo discepolo, che si sente abbandonato da colui che l'aveva assistito come un padre, e la bellezza dell'Eden intorno a lui non gli impedisce di abbandonarsi a un pianto dirotto. duro rimprovero di beatrice (55-81) Beatrice si rivolge a Dante e, chiamandolo per nome, lo invita a non piangere ancora per la dipartita di Virgilio, in quanto dovrà versare altre lacrime per altri motivi. La donna è simile a un ammiraglio che percorre il ponte per osservare le altre navi, volta sul fianco sinistro del carro: Dante la guarda e vede che fissa i suoi occhi su di lui, nonostante sia ancora coperta dal velo. Beatrice ha un atteggiamento duro e intransigente ed esorta Dante a guardarla bene, rivelando il proprio nome e accusando il poeta di aver osato accedere al Paradiso Terrestre dove l'uomo è felice. Dante abbassa lo sguardo verso le acque del Lete, ma poiché si vede riflesso in esse e si vergogna, volge gli occhi all'erba. Beatrice gli sembra tanto severa quanto lo è la madre che rimprovera aspramente il figlio. gli angeli intercedono per dante (82-99) Beatrice tace e gli angeli cantano subito il Salmo XXX (In te, Domine, speravi), non andando oltre l'ottavo versetto. Dante trattiene le lacrime come la neve sull'Appennino che si ghiaccia al soffiare dei venti freddi, e poi inizia a liquefarsi quando arrivano i venti caldi: così quando gli angeli manifestano la loro compassione per lui e sembrano intercedere presso Beatrice, il gelo che gli si era stretto intorno al cuore si scioglie e il poeta si abbandona a un pianto dirotto, come prima per la scomparsa di Virgilio. beatrice accusa dante di traviamento (100-145) Beatrice resta ferma sul fianco sinistro del carro e si rivolge agli angeli, dicendo che essi vedono nella mente di Dio tutto ciò che accade nel mondo e quindi le sue parole saranno rivolte piuttosto a Dante, affinché egli si penta delle sue colpe. Beatrice spiega che il poeta, non solo grazie a benefici influssi celesti ma anche per speciale grazia divina, nella sua gioventù mostrò di avere in potenza ogni virtù e di poter compiere ammirevoli imprese. Tuttavia un terreno, se lasciato incolto o esposto a cattive sementi, diventa tanto selvaggio quanto più è fertile: finché fu in vita Beatrice guidò Dante sulla retta via, ma dopo la sua morte il poeta la abbandonò per dedicarsi ad altre donne. Dante le voltò le spalle dopo che lei aveva accresciuto la sua bellezza diventando beata, seguendo ingannevoli immagini che non mantengono alcuna promessa. La donna tentò di richiamarlo alla virtù apparendogli in sogno, ma a lui non importò nulla: si traviò al punto che, per salvarlo, non c'era altra strada che mostrargli i dannati all'Inferno, per cui Beatrice fece visita a Virgilio nel Limbo, pregandolo di soccorrere il poeta. La suprema volontà divina sarebbe infranta, se Dante bevesse l'acqua del Lete senza prima pentirsi e piangere. interpretazione complessiva del trentesimo canto Protagonista assoluta del Canto è naturalmente Beatrice, la cui apparizione è stata più volte evocata nel corso dei Canti XXVII-XXIX e che rappresenta l'evento centrale della prima parte del poema, il primo fondamentale traguardo raggiunto da Dante nel suo percorso di redenzione. Il Canto risulta diviso in due parti, la prima dedicata al preludio dell'apparizione della donna e alla scomparsa di Virgilio, col primo rimprovero di Beatrice, la seconda riservata al pianto di Dante e alle dure accuse di «traviamento»> che lei gli rivolge. L'episodio si apre con la stessa atmosfera di attesa con cui si era chiuso il precedente e con i ventiquattro vegliardi che si voltano a guardare il carro vuoto: uno di loro grida Veni, sponsa de Libano (il versetto del Cantico dei Cantici solitamente riferito alla Chiesa, qui rivolto evidentemente a Beatrice) e uno stuolo di angeli si alza in volo gettando rose sul carro, preparando l'avvento della donna che sarà protagonista di una sorta di trionfo e verrà descritta con forti immagini cristologiche come già nella Vita nuova (inclusa l'espressione Benedictus qui venis, il saluto rivolto a Cristo al suo ingresso a Gerusalemme e che qui è rivolto esso pure a Beatrice). La scena è descritta con numerose citazioni scritturali e classiche in cui Anchise celebrava la figura di Marcello, accentuando il carattere sacrale di tutta la cerimonia: Beatrice che appare dietro la nube di fiori è paragonata a un sole nascente, immagine che rimanda al suo significato allegorico di grazia santificante e teologia rivelata, in quanto illuminerà Dante mostrandogli il giusto cammino da compiere (già in XXVII, 133 Virgilio gli aveva detto che il sole gli splendeva in fronte). Analogo significato ha anche il suo abbigliamento, con il velo bianco che la ricopre, simbolo di purezza, la ghirlanda di ulivo che rimanda a Minerva come dea della sapienza (tale accostamento è anche biblico), la veste rossa che ricorda l'abito di colore sanguigno indossato da Beatrice al primo incontro col poeta (Vita nuova, II), per quanto i tre colori siano quelli tradizionalmente associati a fede, speranza, carità, come già per le tre donne danzanti alla destra del carro. L'apparizione di Beatrice è tale da suscitare ovviamente la forte emozione di Dante personaggio, che riconosce la donna da lui amata quando era in vita e ne rimane profondamente scosso: si volta verso Virgilio per comunicargli la sua emozione, ma il poeta latino è scomparso per lasciare il posto alla nuova guida di Dante, in quanto allegoria della ragione umana che cede il passo alla teologia. Al di là del senso allegorico, in ogni caso, Dante è toccato da un profondo dolore per l'abbandono di colui che l'ha assistito per i due terzi del viaggio, e la sua disperazione è sottolineata dalla triplice anafora Virgilio..., nonché dall'appellativo dolcissimo patre con cui il poeta latino è qualificato (patre è un forte latinismo, in contrasto col popolare mamma di pochi versi prima, anch'esso riferito indirettamente a Virgilio). Da rimarcare anche la citazione letterale di Aen., IV, 23 (adgnosco veteris vestigia flammae) con cui Dante indica il riconoscimento di Beatrice, che è l'ultimo commosso omaggio al maestro perduto: Dante ha perso il proprio padre poetico e ha ritrovato la donna amata, ma questa gli rivolge subito dure parole di accusa, chiamandolo per nome (la prima e unica volta nel poema che questo è citato, di necessità) e rimproverandolo per aver osato accedere all'Eden, sede dell'uomo felice. Qui si apre la seconda e altrettanto importante parte del Canto, con la prima reazione di forte vergogna da parte di Dante, le parole consolatorie degli angeli, la sua commozione e il pianto: quest'ultimo è descritto con l'ampia e complessa similitudine della neve ghiacciata sull'Appennino che si scioglie ai primi venti caldi, come il gelo del cuore del poeta si scioglie in pianto per le parole degli angeli. Segue poi un più ampio e dettagliato rimprovero di Beatrice, le cui accuse circostanziate ci permettono di parlare di traviamento da parte di Dante che corrisponde al peccato che lo ha condotto nella selva oscura iniziale, anche se è assai arduo precisare in cosa consistesse effettivamente tale peccato (si veda in proposito più oltre): di sicuro Beatrice sottolinea la natura virtuosa di Dante nella sua vita nova (in gioventù), per effetto degli influssi celesti e della grazia divina, ma anche il suo allontanamento dalla guida di lei dopo la sua morte per seguire altrui, delle imagini di ben... false che non mantengono alcuna promessa e che conducono altresì alla dannazione. È chiaro che Beatrice accusa Dante di averne tradita la memoria con un peccato di natura morale, amando cioè altre donne (come la donna gentile), o intellettuale, trascurando la teologia per intraprendere studi filosofici, ma in ogni caso questo comportamento fu tale da fargli rischiare seriamente la dannazione ed è il motivo che l'ha spinta a scendere nel Limbo, invocare l'aiuto di Virgilio, mostrargli le perdute genti per riportarlo sulla diritta via (fuor di metafora, condurlo alla salvezza attraverso un percorso di espiazione: ora Dante ha scontato i suoi peccati e si è riappropriato della sua innocenza perduta, pronto a essere illuminato dalla grazia per proseguire il suo viaggio). Beatrice rivolge i suoi rimproveri non direttamente al poeta, ma rivolgendosi agli angeli perché lui ascolti, dal momento che quelle creature vedono tutto nella mente di Dio e ben sanno quindi la natura delle azioni peccaminose da lui commesse: la donna sottolinea la necessità che Dante si renda conto della cattiva strada intrapresa a suo tempo e ammetta le sue colpe, attraverso un sincero pentimento manifestato attraverso il pianto, prima di essere immerso nel Lete le cui acque cancelleranno in lui ogni ricordo del peccato compiuto. Il Canto si chiude appunto con questa giustificazione di Beatrice della propria durezza agli occhi degli angeli, che avevano voluto intercedere con parole di misericordia a favore del poeta, riassumendo in breve anche la vicenda allegorica che l'aveva vista protagonista insieme a Virgilio nel Canto II dell'Inferno: la prima parte del viaggio si è conclusa e sta per iniziare quella più importante, che condurrà Dante in Paradiso e, allegoricamente, lo porterà alla vera conoscenza che non può prescindere dalla fede nelle verità rivelate, senza ombra di superbia intellettuale. Il rimprovero al poeta avrà un seguito, come si vedrà, nel Canto seguente, in cui Beatrice alluderà in modo ancor più esplicito alla sua vita peccaminosa successivamente alla sua morte terrena, prima che Matelda lo conduca al rito dell'immersione nel fiume Lete.