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tutto il programma di letteratura italiana di quinta liceo

14/1/2023

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SIMBOLISMO
Il poeta romantico Alphonse de Lamartine rivendicava il merito di avere fatto scendere la
poesia dal Parnaso (il monte dove antic

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SIMBOLISMO Il poeta romantico Alphonse de Lamartine rivendicava il merito di avere fatto scendere la poesia dal Parnaso (il monte dove anticamente risiedevano le muse) ossia di avere liberato la lirica dalla rigidità del classicismo in nome dell'espressione soggettiva. Verso la fine dell'800 in Francia si manifesta però una reazione contro la poesia romantica, in particolare nei confronti di alcuni autori accusati di eccessi di sentimentalismo, di retorica sovrabbondante, di trascuratezza nella forma. → Tra il 1850 e il 1885 si afferma il movimento dei "Parnassiani", poeti che attraverso il loro ritorno ai classici si proponevano il recupero del rigore formale, la cura puntigliosa per lo stile e il controllo della regolarità metrica. Nella raccolta il Parnaso contemporaneo sono riunite poesie di una trentina di autori accomunate dal culto per la forma limpida e perfetta. Precursore del movimento è Teofilo Gautier che Baudelaire riconosce maestro nella cura formale e nel lavoro minuzioso su ogni verso. Se ne distacca totalmente per i contenuti e l'idea stessa di poesia. Nell'opera di Baudelaire l'io del poeta ritorna al centro non tanto per esprimere la propria dimensione affettiva e sentimentale come in epoca romantica quanto per dilatare la propria sensibilità, il potere conoscitivo dei sensi. Il poeta è colui che grazie all'intuizione e all'immaginazione può cogliete i misteriosi legami tra i...

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Didascalia alternativa:

vari elementi della natura; non aspira ad una conoscenza oggettiva e razionale del mondo ma cerca l'anima segreta delle cose, la loro vera essenza "Tutto l'universo visibile, scrive Baudelaire, è una specie di pascolo che l'immaginazione deve digerire e trasformare": le cose non sono soltanto ciò che appaiono, ma nascondono un mistero che soltanto il poeta può sfiorare e che tenta di rappresentare attraverso simboli, analogie, sinestesie, accostamenti inattesi in una forma comunque classica e perfetta. Privo di ogni fiducia nel possibile progresso della società, Baudelaire osserva e rappresenta anche gli aspetti più oscuri e scabrosi della realtà, mostrando il poeta come un esiliato, un angelo decaduto, un maestoso uccello che sulla terra inciampa con le sue stesse ali (L'Albatro pag 296). La poesia per Baudelaire è un oggetto prezioso, lavorato come un opera di oreficeria ma nutrito dall'ombra; non è affatto uno sfogo immediato o frutto di improvvisazione ma nasce da una dura fatica, è regolata da leggi ferree da conquistare. L'Albatro pag 296 Nella poesia L'Albatro il poeta rappresenta l'animale in tutta la sua bellezza e potenza quando è in volo, ma quando è catturato dai marinai inciampa nelle sue stesse ali e viene deriso. Così accade al poeta: proprio quelle doti che gli permettono di elevarsi al di sopra di tutto sono per lui causa di scherno e solitudine in mezzo agli altri uomini. Analisi La poesia ha la struttura di una lunga similitudine: le prime 3 strofe sono dedicate all'Albatro l'ultima al poeta. Tra i due protagonisti si stabilisce una fitta rete di parallelismi e di scambi: l'Albatro viene personificato attraverso l'identificazione con un re (v. 5) mentre al poeta sono attribuite ali maestose come fosse un uccello (v. 16). Il luogo in cui entrambi riescono ad esprimere la loro bellezza e forza è il cielo che per l'Albatro indica uno spazio reale, per il poeta invece la dimensione metaforica dell'immaginazione e dell'ideale. Quando sono nel loro elemento naturale non temono nulla, né le minacce atmosferiche né le insidie degli uomini: sono a loro agio nelle tempeste e sanno di non poter essere raggiunti dalle frecce. Entrambi tuttavia se sono costretti a lasciare il loro regno sono esposti alla derisione: l'albatro messo sul ponte della nave compie movimenti confusi (v. 6-7), è fiacco e sinistro, comico e brutto (v.10) sembra uno storpio (v.12); il poeta quando è in terra diventa un reietto, isolato e schernito per la sua incapacità di adattarsi alla vita ordinaria (v.16). → Baudelaire che forse si ispira ad una scena a cui ha assistito durante il suo viaggio giovanile in India afferma che gli uomini provano piacere nel sottoporre a scherzi grossolani un essere che poco prima appariva superiore e irraggiungibile: lo spettacolo della degradazione dell'albatro in qualche modo rassicura i marinai, riduce la distanza tra la loro mediocrità e la bellezza del viaggiatore alato. Il re dell'azzurro è ridotto ad un buffone, tutti possono irriderlo e inventare modi per privarlo della sua dignità. E forse oltraggiare l'albatro permette ai marinai di non pen are, di dimenticare che la loro nave si muove sopra atroci abissi (v.4) ossia che la navigazione e l'esistenza umana in genere è un viaggio esposto al pericolo e alla morte. Anche il poeta è un principe (v.13) che perde ogni regalità quando è costretto a lasciare lo spazio della poesia: obbligato a misurarsi con la società del suo tempo, giudicato in base ai criteri dell'utile e alle ipocrisie del mondo borghese resta solo e paralizzato, e le anonime grida di scherno che si levano intorno a lui suonano come una meschina rivalsa da parte di chi non possiede ali da gigante. CORRISPONDENZE Charles Baudelaire La Natura appare al poeta come un tempio vivente e come una foresta costituita di simboli: l'uomo la attraversa percependo suoni, profumi e colori che rimandano a una profonda e misteriosa unità e diffondono una estrema dolcezza nel suo spirito e nei suoi sensi. Le metafore: il tempio e la foresta La realtà che crediamo oggettiva è per Baudelaire soltanto il riflesso di un'altra realtà più profonda, nascosta, nella quale ogni elemento è legato agli altri in una unità inscindibile. Per suggerire la propria percezione del mondo, il poeta si avvale nella prima quartina di due metafore: • la prima è quella del tempio, luogo che tradizionalmente permette all'uomo di entrare in contatto con il divino, perché gli consente di distaccarsi almeno in parte dal mondo sensibile e di avvicinarsi alla dimensione dello spirito. Baudelaire rinnova però questa immagine presentando la Natura, cioè la realtà dei fenomeni, come un tempio vivente, che poggia su pilastri parlanti (incerte parole / mormorano, vv. 1-2). Il mondo è dunque visto misticamente come una sorta di essenza divina e l'uomo dotato di estrema chiaroveggenza, ossia il poeta, può coglierne i misteriosi messaggi e intuire i legami tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. la seconda metafora è quella della foresta, parola che evoca un luogo intricato in cui spesso ci si può smarrire; nella "foresta di simboli" (v. 3) indicata nella poesia l'uomo però non è minacciato, piuttosto osservato da "sguardi familiari" (v. 4). I simboli infatti non risultano estranei al poeta, ma parlano alla sua intuizione: gli ricordano che egli è parte di una realtà unitaria e autentica, lo accompagnano e insieme lo invitano a entrare nel mistero. L'unità misteriosa del mondo Tutte le manifestazioni sensibili del mondo (colori, suoni, profumi) sono intimamente legate, intrattengono una sorta di dialogo tra loro e reciprocamente si "rispondono" (v. 8). La similitudine che occupa la seconda quartina accosta le sensazioni a echi prolungati che pur partendo da punti lontani convergono verso lo stesso centro. L'intima unità del mondo resta però inconoscibile: il poeta può soltanto dire che tale unione è occulta (profonda e buia, v. 6) e inspiegabilmente vasta, può paragonarla all'oscurità e al suo opposto (grande come le tenebre o la luce, v. 7). Baudelaire dunque non aspira a raggiungere né a offrire una conoscenza compiuta e razionale del mondo, ma si affida all'intuizione, coglie frammenti sensoriali, e mostra che la via per avvicinarsi al mistero è esplorare la mescolanza delle sensazioni. L profumi e le sinestesie Nel descrivere il mondo i poeti hanno in genere privilegiato la rappresentazione di colori, forme e suoni, servendosi di parole legate alla vista, al tatto, all'udito; Baudelaire invece nelle due terzine sceglie di concentrarsi sui profumi. →Le sensazioni olfattive sono le più evanescenti, sottili, immateriali, quindi le più adatte a suggerire l'inafferrabilità della dimensione profonda del mondo. Esse si presentano al poeta associate a immagini inattese, che si riferiscono ad altri ambiti di percezioni: la figura retorica della sinestesia, che associa termini appartenenti a sfere sensoriali diverse, diviene così lo strumento privilegiato del poeta per rappresentare i legami misteriosi che uniscono il mondo visibile e quello profondo. Baudelaire distingue due categorie di profumi: 1. da una parte vi sono quelli che suggeriscono un'idea di innocenza, soavità e purezza, come indicano gli aggettivi e le similitudini che li accompagnano: "freschi come la pelle d'un bambino": "vellutati come l'oboe"; "verdi come i prati" (vv. 9-10); 2. a questi si oppongono profumi sovraccarichi, troppo intensi (d'una corrotta, trionfante ricchezza, v. 11), che hanno la capacità di imporsi su ogni cosa e invadono lo spazio e il tempo (tendono "a propagarsi senza fine". v. 12). Questi ultimi evocano una dimensione estrema, che raggiunge l'eccesso: l'erotismo, il fusso, il misticismo. L'ambra e il muschio sono associati a profumi femminili, il benzoino è una resina esotica da cui trae un'essenza molto pregiata, l'incenso è adoperato nella liturgia ecclesiastica. I profumi sono dunque capaci di sollecitare l'immaginazione; introducono l'uomo ad abbandonare le apparenze delle cose e accompagnano con la loro energia le conquiste dello spirito e le esperienze sensoriali più intense (le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi, v. 14) SPLEEN Charles Baudelaire In un giorno buio e piovoso, quando la terra sembra al poeta un'umida prigione e i pensieri più cupi tormentano il suo cervello, a un tratto esplode un frastuono violento di campane che paiono lanciare un urlo spaventoso verso il cielo. Il poeta si sente completamente dominato dall'angoscia. Il linguaggio dell'oppressione Per rappresentare la condizione di spleen, ossia l'angoscia esistenziale e la disperazione senza rimedio, Baudelaire si serve di un crescendo di immagini cupe e oppressive. →Tutto ciò che potrebbe apparire lieve e positivo è infatti rovesciato nel suo opposto. Il cielo, in genere simbolo di elevazione, libertà e leggerezza, acquista nella poesia una rigida consistenza materiale: è "basso e greve", incombe sull'anima e pesa come un "coperchio" (v. 1) che chiude e imprigiona; esso preme ovunque sull'orizzonte, senza lasciare vie d'uscita, in un cerchio che si stringe come un laccio; la luce del giorno è cancellata da un atmosfera più triste e nera della notte. Lo sguardo del poeta si sposta poi dall'alto al basso, dall'esterno all'interno: sotto il peso del cielo la terra appare a Baudelaire una prigione malsana da cui non è possibile evadere (e il senso di claustrofobia è moltiplicato dall'immagine della Speranza personificata che st dibatte inutilmente tra i muri e il soffitto come un pipistrello intimorito). Tutto concorre a generare un senso di impotenza e reclusione: persino ciò che è fluido, come la pioggia o immateriale, come i pensieri, acquista una opprimente solidità. Le gocce che cadono (o che si allungano scivolando sui vetri) per il poeta equivalgono alle rigide sbarre di una prigione (inferriate, v. 10); le inquietudini e le paure nella mente sono per lui trappole paralizzanti, come un'infinità di reti tese nel cervello da un immondo "popolo di ragni" (v. II). Il suono delle campane L'anafora del "quando" (vv. 1, 5 e 9) e l'incalzare di proposizioni subordinate nelle prime tre quartine amplificano l'attesa della frase principale, che sopraggiunge soltanto nella quarta strofa: "furiose a un tratto esplodono campane" (v. 13). Tale suono non ha evidentemente nulla di liberatorio, non è l'annuncio di pace o di festa proprio della tradizione religiosa e popolare, ma è una drammatica dichiarazione di sconfitta e rappresenta l'urlo dell'anima che soggiace totalmente allo spleen. I termini che accompagnano le campane hanno infatti una connotazione violenta, dissacratoria e disperata: "furiose", "esplodono", "urlo tremendo" (v. 14). Il poeta sa che la sua stessa protesta è vana, e accosta i rintocchi a spiriti erranti che gemono ostinatamente senza poter raggiungere il cielo. Il silenzio e la sottomissione Dopo lo sfogo furioso cala il silenzio. La disperazione del poeta è rappresentata come un succedersi dentro il suo cuore di funerali "Senza tamburi, senza musica" (v. 17), quasi non vi fossero più né forze né parole per accompagnare la morte dei sogni e delle speranze. La cruda immagine dell'Angoscia personificata che pianta il proprio stendardo nero sul "cranio riverso" (v. 20) del poeta ne segna in modo visibile la totale sottomissione. →ll contesto sembra quello di un duello medievale in cui il cavaliere sconfitto, la Speranza, piange la propria disfatta, mentre l'altro, l'Angoscia, afferma il proprio dispotico dominio sul campo di battaglia. X AGOSTO La notte di San Lorenzo è la notte delle stelle cadenti: la tradizione popolare le ha interpretate come le lacrime piante da Lorenzo durante il suo martirio nel 3 secolo d.C. Il 10 agosto il padre di Pascoli fu ucciso in un agguato con una fucilata. Pascoli costruisce questa poesia mettendo in relazione i due avvenimenti. La pubblicò per la prima volta su un numero datato 9 Agosto 1896 della rivista "Il Marzocco" accompagnandola con questa nota: "Questo ricordo del 10 Agosto 1867, lo dedico ad alcuni ignoti uomini atroci; siano essi ora spettri che vagano perpetuamente dal luogo ove uccisero al luogo dove furono uccisi, o siano teste rugose bianche che sempre più si chinano a l'ombra estrema che cova la vendetta, o siano fronti pallide che provano a rialzarsi lentamente sperando che essa non venga più, non ci sia più... Un po 'di pazienza ancora, un po' di pazienza, pazienza, pazienza." → La prima strofa da il tono della poesia ricordando la lugubre interpretazione popolare del fenomeno celeste: le stelle cadenti sono lacrime. Ma Pascoli attribuisce le lacrime non al solo giorno di San Lorenzo bensì al cosmo nella sua interezza: egli vuole fare diventare il dolore personale un caso particolare del dolore universale. Un tipico procedimento pascoliano è mettere in relazione il mondo umane e il mondo animale o vegetale spesso utilizzando il secondo come simbolo del primo. Nella seconda e nella terza strofa Pascoli fa l'esempio di una rondine uccisa mentre è di ritorno al nido. La quarta e la quinta strofa esplicitano il simbolo: la rondine corrisponde al padre di Pascoli. Le strofe centrali sono collegate da parole ricorrenti: ritornava/tornava (v.5-13) ora è là /ora là (v9-17) attende/aspettano (v11-13) cielo lontano (v10-20). La rondine viene vista come un equivalente di Cristo, una vittima innocente uccisa da uomini malvagi e il padre stesso di Pascoli in virtù dell'equivalenza con la rondine viene paragonato a Cristo. A ciò si aggiunge il fatto che nelle ultime sue parole perdona gli assassini proprio come fece Cristo. Va notata un'asimmetria: la rondine portava il cibo ai rondinini che senza di lei sarebbero morti di fame, il padre invece portava alle figlie due bambole. Un conto è il cibo che è necessario per sopravvivere, un conto sono le bambole che sono superflue. Però, in virtù del parallelismo tra il padre e la rondine si insinua nel lettore l'idea che anche alla famiglia sia mancato il cibo oltre che l'affetto paterno rappresentato dalle bambole. Entrambi i regali sono mostrati al cielo lontano ovvero a un Dio inesistente e consapevolmente distratto, con quello che è un gesto d'accusa: "Guarda che cosa hai permesso che accadesse". Proprio il cielo questa volta con una significativa iniziale maiuscola costituisce il ponte lessicale con la strofa di chiusura. L'ultima strofa, con una struttura circolare, torna alle stelle cadenti e all'interpretazione data al principio del testo. Dio è chiuso in una dimensione lontana, impassibile di fronte al dramma terrestre, l'unica consolazione che il cielo può offrire è un simbolo: inviate sulla terra le lacrime composte dalle stelle cadenti come se queste bastassero a consolare il dolore che dilaga a causa del Male. Perchè Pascoli ha scelto la rondine? → La rondine è fedele al suo nido, ritorna sempre anno dopo anno dimostrando attaccamento ad esso. La rondine sarebbe tornata al nido come il padre sarebbe tornato a casa. Solo la crudeltà degli uomini ha potuto impedire che il loro desiderio si realizzasse. L'ASSIUOLO Il tema e la struttura Il testo è costruito sul progressivo passaggio dai dati oggettivi- la descrizione di uno spettacolo naturale-a quelli soggettivi e simbolici. Ogni strofa costituisce una parte di questo quadro, ed è scandita alla fine, come da un ritornello, dal verso lontano dell'assiolo: nella prima strofa il paesaggio notturno è in primo piano, mentre si sentono provenire da lontano i rumori di un temporale; nella seconda abbiamo le stelle in mezzo al cielo nebbioso e lattiginoso, i rumori del mare e altri suoni della campagna, ma a queste voci si aggiunge quella interiore del poeta, un' "eco" di un dolore lontano nel tempo; nella terza strofa il soffio del vento si confonde con il verso acuto delle cavallette, che suggerisce all'io una domanda su un regno dei morti di cui nulla si sa; e proprio sulla parola “morte" si conclude la poesia. In sintesi, quel che sembrava all'inizio un incantevole paesaggio notturno di campagna diventa la descrizione di una natura animata intenta a una sorta di rito misterico legato alla morte, scandito dal lamento funereo dell'assiolo. →Gli strumenti principali attraverso cui avviene il passaggio dalla rappresentazione oggettiva al simbolismo sono soprattutto tre: 1. la personificazione della natura, che caratterizza già la descrizione della prima strofa (il cielo che nuota, il mandorlo e il melo che si alzano per vedere meglio la luna) e scandisce l'interpretazione del verso dell'assiolo dal termine neutro (ma già personificato) "voce" (v. 7) al più umanizzato "singulto" (v. 15) fino all'esplicito "pianto di morte" finale; 2. la presenza progressiva dell'unico soggetto umano, cioè l'io del poeta: assente nella prima strofa, o meglio nascosto nella domanda iniziale (che rivela il suo sguardo di osservatore del paesaggio), egli domina la seconda strofa, perché si rivela esplicitamente come soggetto di una percezione sensoriale (i rumori della natura) ma anche interiore; infine, in simmetria con l'inizio, ritorna nella domanda conclusiva tra parentesi ai vv. 21-22; 3. l'emergere sempre più netto della tematica del dolore e della morte: assente nella prima strofa, essa entra in scena con l'ingresso esplicito dell'io come traduzione soggettiva del quadro naturale in un "sussulto" del cuore (nato da ricordi richiamati dalla situazione presente, così che il "grido" di un lontano passato ritorna nel "singulto" dell'assiolo); infine, dolore e morte concludono insieme il testo, nella domanda finale che interpreta lo stridere delle cavallette come una cerimonia per aprire le porte dell'oltretomba. Ossessione di morte e mistero della natura La presenza congiunta del dolore e della morte è fondamentale nel testo, perché è ciò che trasforma lo spettacolo naturale in un quadro simbolico e misterioso, che non si spiega con il testo stesso, ma fa parte di un passato personale, di un non detto ricorrente "com'eco d'un grido che fu" (v. 14). →Il lettore di altri testi di Myricae sa che il testo si riferisce al trauma originario della vita cosciente di Pascoli, l'assassinio del padre: è facile infatti collegare il "grido che fu" all'ultimo grido del padre assassinato di X Agosto, e quindi concludere che questo paesaggio notturno è intriso di morte e di dolore perché su di esso (sulla tempesta che si avvicina e soprattutto sul grido lamentoso dell'assiolo) Pascoli proietta la propria ossessione della morte, nata dal primo e più doloroso dei suoi lutti familiari. Tuttavia è altrettanto importante ricordare che Pascoli non ha voluto rendere questa proiezione esplicita, ma ha preferito che il lettore cogliesse, come l'autore, l'incanto e i brividi di una natura viva, animata, di un mondo che si apre sul mistero della morte e dell'aldilà. Il mistero è infatti il carattere più profondo di questo mondo naturale, delle sue voci e degli eventi che si svolgono in esso, non solo dal punto di vista tematico, ma anche da quello espressivo. Il paesaggio appare indeterminato, immerso in una luce incerta e nebbiosa, mentre i fenomeni visibili e udibili sono introdotti quasi sempre dall'articolo indeterminativo un/una. Aumentano questo effetto le due domande poste all'inizio e alla fine, e i puntini sospensivi che chiudono ogni strofa e diventano ossessivi negli ultimi tre versi del testo. La voce dell'assiolo, infine (nominato solo nel titolo), è espressa dall'onomatopea "chiù", riproposto a scandire il testo come un ritornello; un suono che vuole trascrivere una voce della natura più che un linguaggio umano, e che con il suo timbro scuro (la "u" accentata) sembra coincidere con il messaggio misterioso da esso veicolato, cioè il "pianto di morte". →Inoltre, i fenomeni naturali sono designati attraverso formulazioni originali, che li rendono come nuovi per il lettore (si tratta dello straniamento, una rappresentazione alterata che fa riscoprire la realtà dell'esperienza quotidiana come qualcosa di strano e misterioso). Tale effetto è ottenuto, ad esempio, attraverso la sinestesia (cioè la figura retorica che sintetizza inimagini appartenenti a campi sensoriali diversi), la quale crea espressioni razionalmente indefinibili come "soffi di lampi" (v.5); e più in generale attraverso la condensazione di concetti lontani uniti dalla preposizione "di", come ad esempio "alba di perla" (per indicare un'alba dalla luce pallida come quella di una perla) a "nero di nubi", che parte da un normalissimo "nubi nere", ma trasforma l'aggettivo qualificativo in un aggettivo sastantivato e il sestantivo in un complemento da esso dipendente, esaltando l'effetto coloristico, ma soprattutto stravolgendo la percezione "normale". TEMPORALE Una poesia descrittiva Temporale è un tipico esempio di poesia descrittiva, il cui tema è il paesaggio naturale, che è uno dei protagonisti di Myricae. →Il testo nasce nel 1892 da un viaggio a Siena, durante il quale Pascoli stende degli appunti sotto il titolo: "Appunti di viaggio per una poesia rapida a vari tratti". Possiamo usare questa definizione d'autore per sintetizzare i caratteri fondamentali del cosiddetto "impressionismo" pascoliano: così come fanno i pittori impressionisti (che non vogliono riprodurre oggettivamente un paesaggio, ma fissare l'impressione istantanea suscitata), anche Pascoli tenta di fissare con pochi tratti un'immagine ben precisa, senza costruire un quadro equilibrato e armonico. Si tratta infatti di una "poesia rapida": una scena costruita per giustapposizione di dettagli diversi, dapprima sonori e poi solo visivi, che compongono un paesaggio (dal mare alle montagne). Tale giustapposizione si fonda anche sul contrasto cromatico tra il rosso fuoco dell'orizzonte e il nero pece sul monte, sul quale spiccano a loro volta piccole macchie di bianco. Questa varietà contrastante di tocchi (è un quadro composto “a vari tratti”) corrisponde al carattere improvviso e istantaneo della situazione meteorologica rappresentata (l'avvicinarsi del temporale). L'Impressionismo pascoliano Temporale è un capolavoro dell'impressionismo pascoliano soprattutto per la tecnica espressiva che da forma alla suddetta sensibilità pittorica. La rapidità del quadro nasce infatti da una sinteticità linguistica, più precisamente sintattica. La sintassi è infatti elementare paratattica, costruita per successione di frasi brevissime (d solito coincidenti con un verso) e coordinate per asindeto, cioè senza congiunzioni ma solo mediante segni di punteggiatura. →In questa sintassi prevale inoltre lo stile nominale, fondato sui sostantivi (dodici sostantivi e un solo verbo di modo finito, al v. 2), che pongono in primo piano i fenomeni e le sensazioni suscitate: ne deriva l'ellissi (cioè la soppressione) del verbo, oltre che dei collegamenti logici espliciti. Anche se apparentemente l'effetto è di immediatezza oggettiva (come se il paesaggio si mostrasse da sé), in realtà si tratta della trasposizione soggettiva di stati d'animo interiori del poeta, proiettati sulla realtà esterna. E' il poeta infatti che paragona il "rosseggiare" dell'orizzonte al brillare di un fuoco, e il casolare comparso all'improvviso nel buio alle ali di un gabbiano risplendenti nella notte; ed e lui che costruisce la simmetria tra le diverse parti della scena (tra mari e monti, chiaro e scuro, nero e colori vivaci). NOVEMBRE L'estate dei morti Il cielo è luminoso e l'aria è tiepida: per il meccanismo della memoria involontaria, di cui parla lo scrittore francese Marcel Proust (1871-1932) in Alla ricerca del tempo perduto, lo sguardo va in cerca degli albicocchi in fiore e si ha l'impressione di sentire l'odore del biancospino. L'impressione viene subito smentita nella seconda strofa, che infatti inizia con un "Ma" (v. 5). L'albero spinoso del pruno è secco e nel cielo si disegnano i reticoli dei rami spogli; non volano uccelli e il terreno risuona vuoto sotto il piede che vi cammina sopra; il vento fa cadere le foglie con un suono lieve. Questa è l'estate di san Martino, che Pascoli chiama "estate... dei morti" (vv. 11-12). L'illusione della vita ultraterrena La seconda strofa va letta con attenzione. Il cielo è "vuoto" (v.7) perché non volano uccelli e mancano le nubi; il terreno è duro, compatto perché non ancora smosso dall'aratro, e quindi sembra risuonare sotto i passi. In realtà, il significato letterale si arricchisce di un significato simbolico. →ll cielo è vuoto perché non accoglie Dio, il Paradiso e la vita ultraterrena. Pertanto, il terreno, in cui si sotterrano i morti, diventa la tomba perpetua per ogni uomo. Tutto si conclude sotto terra: come questi giorni di novembre sono un'illusione di primavera, così è un'illusione che i morti possano godere di una nuova estate, cioè di una vita ultraterrena. Tramatura fonica e ritmo lento Ancora una volta la tramatura fonica (cioè il susseguirsi dei suoni) è raffinata. Nella prima strofa le rime condividono la "r" il cui suono percorre tutti i versi; sole e fiore assuonano; la conclusione di prunALBO, che assuona con la rima A (-aro), è anticipata dalla parola ALBicOcchi. La seconda strofa abbonda di suoni aspri, che si accordano con la descrizione di una natura spoglia: seCCO, PRuno, SteCCHite, TRame, semBRa, TeRRenO. Le rime A della seconda (-ante) e della terza (-ate) strofa sono assonanti. Un esempio di fonosimbolismo si ha nei vv. 11-12, perché i suoni di Foglie, cadeR, FRagile, FRedda sono simili al rumore di una foglia secca che venga mossa dal vento. Gli enjambements fra i vv 3-4 e 7-8 rallentano il ritmo. Nel la terza strofa questo rallentamento è provocato dalla sintassi franta, cioè con pause e frasi spezzate: essa mette in evidenza il silenzio, che permette di sentire il rumore delle foglie e quasi di percepire la lentezza con cui cadono. L'aggettivo "fredda" (v. 12) viene isolato tra due virgole: è una forzatura dell'uso consueto della punteggiatura. Pascoli vuole che la lettura sia scandita: l'estate è finita, la stagione non regala il calore e la vita ma il freddo e la morte. IL LAMPO La natura umanizzata E'-semplicemente- la descrizione di un lampo, ma è una descrizione geniale. I primi quattro versi fissano lo sguardo su tre cose: la terra, il cielo, una casa. Si tratta, infatti di una poesia tutta visiva (al senso della vista rimandano tre dei soli quattro verbi del testo (si mostrò, appari, spari), apparentemente senza suoni (il tumulto, cioè lo sconvolgimento della natura provocato dal temporale è tacito, non dà suono: siamo nel momento che precede il tuono). La luce del fulmine illumina il cielo, la terra, la casa per una frazione di secondo, ma questo attimo è sufficiente a fissare alcune caratteristiche che, più che a elementi naturali o a manufatti (la casa), sembrano attagliarsi a esseri umani (e a esseri umani spaventati o prostrati): la terra viene detta ansante, il cielo disfatto. Il cielo, un occhio Questo accenno di antropomorfizzazione (il conferimento, cioè, di caratteri umani al paesaggio naturale) si completa e si arricchisce con la similitudine degli ultimi due versi. Nel paesaggio illuminato dal lampo è baluginata, per un momento una casa bianca nel nero della notte. In mezzo a un paesaggio naturale ostile, spaventoso, la casa potrebbe essere- come è di solito nel nostro immaginario - un riparo, un luogo di familiare conforto. →Ma che cosa accade? Che, attraverso un'analoga arditissima, la casa viene accostata a un'immagine enigmatica e inquietante, quella di un occhio che si apre e poi si chiude esterrefatto. Il fatto che Pascoli non dica occhi, il fatto che l'occhio sia uno solo (cosa piuttosto innaturale di solito, infatti, gli occhi si aprono e si chiudano in sincrono) rende l'immagine ancora più sinistra: l'occhio di chi? Perché è esterrefatto? A quali trascorsi biografici potrebbe alludere, qui Pascoli, a quale metaforica "notte nera"? Il lettore informato sulla vita del poeta non può non pensare al ben diverse lampo che gli ha distratto la giovinezza: quello della fucilata che nell'agosto del 1867 ha ucciso suo padre. E' suo (del padre) l'occhio che si apre e subito si chiude nel nero della notte? La poesia non lo esplicita: Pascoli non dice la tragedia, la evoca soltanto, lasciando il lettore nel dubbio, Fonosimbolismo Come accade spesso, Pascoli fa sì che il suono e l'accorta disposizione delle parole aumenti la loro forza semantica. L'allitterazione della "t" lungo tutto testo evoca il crepitio del fulmine; il suono cupo delle vocali (in sUssUltO, ingOmbro,tUmUltO) sembra annunciare l'abbattersi del tuono; i sintagmi bianca bianca, apparì sparì e s'aprì si chiuse (senza virgole a separare i verbi) esprimono mirabilmente l'istantaneità con cui le immagini s'imprimono sulla retina dell' occhio che contempla la scena. DIGITALE PURPUREA La digitale purpurea è una pianta con una bella spiga di fiori rossi. Da essa si estrae un medicamento per le malattie cardiache ma è pericoloso se assunto in dosi elevate. Secondo la sorella di Pascoli all'origine di questo poemetto ci sarebbe un ricordo della sua vita in collegio: la proibizione di avvicinarsi al fiore pericoloso perché velenoso. Nella trasfigurazione poetica la Digitale appare come il simbolo della trasgressione erotica, di un'esperienza conoscitiva che segna per sempre la giovinetta che la compie. ITALY dai Poemetti CANTOI In una piovosa giornata di Febbraio tornano a Caprona nei pressi di Castelvecchio 2 fratelli emigrati: Beppe e Ghita che portano con sé la nipotina Maria detta Molly di 8 anni. La bambina nata in America, ha una malattia ai polmoni e si spera che in Italia possa riacquistare la salute. Negli Stati Uniti la famiglia di migranti conduce una vita non ricca ma certamente migliore di quella dei paesani rimasti in Italia. Il nonno Taddeo li riconduce a casa. CANTO IV Svegliandosi al mattino Molly scopre che nella notte è caduta la neve: i suoni sono attutiti, il panorama è cambiato, il freddo è ancora più intenso. La nonna cerca di offrire alla nipote una colazione dignitosa, ma la bambina continua a sentirsi spaesata e a disagio perché non ritrova i sapori dei cibi a lei noti. L'anziana donna inizia ad affascinare Molly che si mette accanto a lei per guardarla e le si affeziona iniziando anche ad amare un po il suo paese. La bambina un giorno di pioggia disse alla nonna "die"; la bambina chiuse gli occhi e ripetè "die,die". La nonna sussurrò "dormire" ma la bambina mima un'abbandono ancora più forte del sonno simile a quello della morte. La bambina inizia a giocare all'aperto con la sua bambola, ascolta il rintocco delle campane, vede altri migranti. Nel frattempo però la nonna contagiata da Molly, contrae la stessa malattia polmonare e si aggrava rapidamente. Su di lei pesano infatti la fatica di tanti anni di lavoro e il dolore provato nel vedere i figli partire verso un avvenire pieno di incertezze. Nella lunga traversata verso l'oceano osservano il cielo e pensano sia lo stesso sotto il quale vivono i loro cari rimasti in patria. Cercano un impiego, vendono prodotti economici, si offrono come braccianti a poco prezzo ma incontrano rifiuti e pregiudizzi. La nonna non sopravvive all'assalto della malattia. Dopo la sua sepoltura giunge il momento per Molly e gli zii di ripartire per l'America. Tutti i paesani vengono a portare il loro saluto e a consegnare messaggi e raccomandazioni per i cari lontani. Anche i bambini del paese si congedano da Molly e per la prima volta la piccola risponde loro in italiano. IL GELSOMINO NOTTURNO Il gelsomino notturno è uno dei capolavori del simbolismo di pascoli perché: 1. ha una molteplicità di sensi del discorso poetico raggiunto attraverso un linguaggio allusivo, simbolico, da decifrare 2. cancella i confini tra mondo naturale e mondo umano attraverso la proiezione di immagini da l'uno all'altro. → Il contenuto è esplicito, il tema è la fecondazione del gelsomino notturno che avviene di notte e allo spuntare dell'alba è già compiuta poiché nel seme impollinato dal vento o da un insetto, nel pistillo del fiore, sta covando un altro fiore futuro di modo che si possa ripetere il miracolo della vita. Tale processi è inserito in un'atmosfera suggestiva per il silenzio in cui è immersa tutta la natura, confermato da quei minimi sussurri che lo punteggiano come il ronzio di un ape o il bisbiglio di una casa che sta preparandosi anche essa al sonno. Il testo è un racconto impressionista, un quadro di natura costruito per accumulo di piccoli tocchi e dettagli separati, spezzettato in tante micro-sequenze, caratterizzato da una sintassi ridotta all'essenziale e quasi interamente paratattica. I singoli fenomeni non sono collegati ma affiancati come se si svolgessero indipendenti e parallelamente nel tempo. Inoltre quello che sembra un accumulo casuale di diversi elementi è in realtà un quadro costruito su una fitta rete di corrispondenze e simmetrie (corrispondenza per antitesi tra la prima e l'ultima strofa), numerose riprese verbali tra la terza e la quinta strofa. → È un quadro dinamico che narra un processo, la fecondazione tramite impollinazione, operata dal vento che si svolge lungo la notte, il passare del tempo è infatti presente in maniera più o meno dichiarata quasi in ogni strofa a cominciare dalla congiunzione iniziale "E" che suggerisce come il racconto sia il seguito di una parte precedente non detta. In particolare la poesia è incorniciata ai suoi estremi da un indicazione notturna e da una conclusione, l'alba che coincide con la conclusione degli eventi narrati. Il contenuto simbolico Senza la nota in cui Pascoli ci informa di aver scritto questa poesia per le nozze di un amico avremmo capito che il testo ha a che fare con una celebrazione nuziale? Forse no, ma quella nota permette di valutare l'originalità del testo che esprime il suo contenuto profondo nascondendolo dietro allusioni e simboli. Alla luce di questa informazione possiamo identificare lo scenario di una prima notte di nozze e soprattutto rileggere il racconto della fecondazione del gelsomino notturno come una sorta di copertura, di allusione continua a un racconto parallelo, non narrato se non allusivamente, cioè il concepimento, durante la prima notte di nozze di un bambino. → Il gelsomino notturno rappresenta la donna e l'apparato riproduttivo del fiore, (petali,calici, urna) cioè l'ovario contenuto nel pistillo, diventa simbolo dell'apparato riproduttivo femminile: il racconto esplicito ne contiene un segreto e il tema floreale copre un discorso sulla sessualità umana. Il linguaggio simbolico è a sua volta l'espressione di una percezione e di una rappresentazione che sono definibili simboliste perché fondono il mondo umano e il mondo naturale in una sola dimensione dotata di vita, proiettando e traducendo le vicende dell'uno nei termini dell'altro, rendendoli intercambiabili. Questo interscambio consente la creazione di un codice simbolico su cui si fonda il testo, un codice che permette di parlare di fecondazione di un fiore e contemporaneamente di sessualità femminile, appoggiandosi sia su analogie fisiologiche evidenti sia su una lunga tradizione letteraria (che ha da sempre accostato la ragazza vergine al fiore). Questa fusione si manifesta in una duplicità di senso che è anche un ambiguità persistente e in certi casi clamorosa: per esempio nell'immagine finale incentrata su " l'urna molle e segreta" è davvero difficile capire se quei termini alludono agli organi riproduttivi di un fiore o al corpo della giovane sposa in onore della quale Pascoli ha scritto questa poesia Le illusioni mortuarie Il testo presenta anche segnali di un contenuto ulteriore che possiamo definire mortuario. Esso costituisce un 3 livello forse ancora più profondo perché personale, legato non all'occasione di questa poesia ma alle ossessioni psicologiche dell'autore. I suoi segnali non costituiscono un discorso organico, che in effetti avrebbe ben poco a che fare con le intenzioni di celebrare le nozze e il concepimento di un bambino, ma per così dire lo scandiscono anche se non è possibile capirne la ragione. L'evocazione di uno scenario notturno comincia sotto il segno della morte, implicito nelle farfalle crepuscolari (che hanno sul dorso dei disegni simili a un teschio) e esplicito nella relazione che Pascoli stabilisce tra il crepuscolo e l'ora in cui pensa ai suoi cari cioè ai familiari morti. Nella 3 strofa vengono messi in parallelo uno stadio della fecondazione (odore intenso che si sprigiona dal fiore aperto e che attira gli insetti che lo feconderanno) e l'erba che nasce sopra le fosse. Anche nella già notata ambiguità dell'immagine dell'urna si potrebbe vedere un indizio funebre perché nel linguaggio letterario questo termine significa di solito tomba. Sembra insomma che mentre evoca la vita che misteriosamente si riproduce, Pascoli non possa fare a meno di pensare alla morte, quasi a rimarcare che l'una e l'altra sono i 2 processi inseparabili dello stesso ciclo della natura e quindi anche degli uomini: per questo le farfalle crepuscolari sono al tempo stesso agenti della fecondazione dei fiori; per questo l'erba nasce ricoprendo le tombe dei morti. LA GRANDE PROLETARIA SI È MOSSA In questo suo intervento Pascoli costruisce una mitologia nazionalista di grande efficacia, sostenendo, con argomenti di forte impatto e persuasività, le ragioni a favore della colonizzazione dell'Africa: 1. La prima ragione è costituita dal grandioso passato del storia italiana, durante il quale Roma aveva portato la civilizzazione in quell'Africa che era, poi, regredita per la pigrizia delle sue popolazioni: l'Italia, colonizzando l'Africa, non farebbe che portare a compimento la missione di Roma. 2. L'altra consiste nella convinzione che la nazione italiana debba prendersi una rivalsa delle umiliazioni che subisce da più di un secolo, nonostante le glorie risorgimentali, mai abbastanza ricordate e riconosciute. Umiliazioni a livello di politica internazionale (la definizione di Metternich dell'Italia come mera espressione geografica, le sconfitte di fine secolo in Africa orientale) e di sentire comune, per il disprezzo a cui vanno incontro gli emigranti, sebbene essi siano i continuatori delle grandi opere di civilizzazione dei loro progenitori romani. L'Italia è, dunque, autorizzata, per una sorta di risarcimento, a partecipare alla conquista coloniale dell'Africa e a recuperare, in tal modo, un ruolo preminente nel quadro delle grandi nazioni europee. →La lenta evoluzione di Pascoli dal giovanile socialismo al nazionalismo è stata certamente favorita dal suo profondo scontento personale e dalla conseguente ricerca di rivalsa ed è stata alimentata dalle immagini del suo mondo poetico, come quelle del "nido", della "siepe" e dell'Italia raminga", che confluiscono nell'epopea dell'emigrazione di Italy: nel poemetto, infatti, come in questo discorso, l'obiettivo dell'emigrante è quello di "rifarsi un nido", di acquisire una piccola proprietà. L'altra sponda del Mediterraneo, con le sue radici romane ancora visibili, è il luogo di espansione naturale per una popolazione contadina numerosa come quella italiana, suolo patrio anch'essa, collegato alla terra madre dalla "strada vicinale" (rr. 47-48) del mare Medi terraneo. Per tale colonizzazione ben venga la guerra, evocata nel discorso in toni eroici ed enfatici, con i "morti gloriosi" (rr. 58-59) ei "feriti felici della loro luminosa ferita" (r. 59), ma soprattutto valorizzata come momento di unità nazionale e di superamento della lotta di classe. La morte, come la poesia nel Fanciullino, relega in secondo piano differenze sociali, a vantaggio di una visione interclassista, che trasferisce il conflitto sociale dall'interno di una nazione alla competizione fra nazioni a diverso livello di sviluppo. Il Pascoli nazionalista e interclassista è, in certo qual modo, anche un Pascoli colonialista. IL PIACERE Il piacere è il primo romanzo di d'Annunzio. Il protagonista è Andrea Sperelli, un dandy aristocratico, colto e raffinato che dopo aver viaggiato a lungo si stabilisce a Roma nel 1884. Il suo primo amore è Elena Muti, giovane vedova corrotta e sensuale. La loro storia termina all'improvviso nel marzo del 1885 quando lei scompare misteriosamente. → Fabula (l'ordine del racconto). Andrea Sperelli si dedica al piacere e al sesso, seducendo una donna dopo l'altra ma non riesce a dimenticare Elena Muti. Dopo un duello in cui rimane ferito Sperelli trascorre la convalescenza nella villa sul mare della cugina. Qui conosce la "spirituale ed eletta" Maria Ferres, moglie di un ambasciatore. Ne è attratto ("gli ispirava un senso di devozione e di sommissione altissimo"), inizia a corteggiarla ma la donna resiste. Nel dicembre del 1886 Elena torna a Roma, ma ora è sposata con un nobile inglese. Sperelli è diviso tra il nuovo amore (Maria alla fine ha ceduto) e il precedente (Elena). Desidererebbe una donna che unisse Elena e Maria, due tipi erotici differenti e complementari: è geloso del nuovo amore di Elena, così come Maria è gelosa dell'antico amore di Sperelli per Elena. Poi, il marito di Maria viene scoperto mentre bara ad un gioco ed è costretto ad abbandonare Roma. Sperelli, facendo per l'ultima volta l'amore con Maria si lascia sfuggire il nome di Elena: "Un gran silenzio le vuotò l'anima. Le si aprì, dentro, uno di quegli abissi in cui tutto il mondo sembra scomparire all'urto di un unico pensiero". Maria fugge mentre Sperelli cerca di trattenerla. Nell'ultimo capitolo Sperelli si aggira per il palazzo di Maria i cui beni sono messi all'asta "provando un orribile stanchezza, una stanchezza così vacua e disperata che quasi pareva un bisogno fisico il morire" → Intreccio (modo in cui viene narrata la storia). L'intreccio è molto più complesso. Il romanzo è diviso in 4 libri. 1. Nel primo Sperelli attende a casa Elena Muti ricomparsa a Roma dopo 2 anni. Il colloquio tra i due, in cui Sperelli cerca di riallacciare la relazione amorosa, viene deciso da una frase di lei: "Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?" la risposta non può che essere negativa. Qui inizia un lungo flashback in cui vengono raccontati l'inizio della storia d'amore con Elena, la conclusione, la vita si Sperelli successiva all'abbandono e infine il duello. 2. Il secondo libro fa ancora parte del flashback e comprende la convalescenza e la relazione con Maria Ferres nella villa della cugina. 3. Nel terzo libro Sperelli torna a Roma dove incontra di nuovo Elena Muti: il flashback termina nel secondo capitolo. Di qui in poi fabula e intreccio coincidono. Personaggi Tra i personaggi del romanzo bisogna includere anche la città di Roma, perché d'Annunzio descrive con passione il centro storico, i palazzi eleganti, gli arredi preziosi, i concerti, i pranzi, le feste mondane e le corse dei cavalli. È quella Roma aristocratica che d'Annunzio aveva conosciuto nelle vesti di cronista mondano. → Andrea Sperelli è un personaggio idealizzato con parecchi tratti autobiografici: rappresenta ciò che d'Annunzio desiderava essere e in certa misura era, un esteta ammaliato dalle cose belle e ossessionato dalle donne. Tuttavia, nell'introduzione al romanzo d'Annunzio di mostra fortemente critico nei confronti del suo personaggio e del suo stile di vita:" Questo libro nel quale io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tanta sottilità e falsità e crudeltà vane (...); le pagine dove è rappresentata tutta la miseria del piacere." In realtà l'atteggiamento del narratore nei confronti del suo personaggio è di ammirazione: del resto Sperelli vive lo stile di vita che d'Annunzio apprezzava e la porta a quel grado di perfezione e di coerenza che solo l'arte può dare. Ma che cosa penda davvero d'Annunzio del suo personaggio? Non è facile capire se nell'introduzione d'Annunzio finga di condannare il suo personaggio solo per motivi di opportunità: se ciò voglia evitare la censura o le critiche moraliste che potrebbero nuocere al libro, critiche che potevano appuntarsi sia sulla forte componente sessuale del libro sia sul cinismo amorale di Spinelli. Si pensi ad esempio alla scena in cui Sperelli è infastidito perché la sua carrozza è bloccata da una manifestazione di protesta per la strage di Dogali:"L'orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini di corsa, agitando gran fasci di fogli fendevano la calca; emergeva d'istinto su i clamori il nome d'Africa "per 400 bruti morti brutalmente" mormorò Andrea". D'altronde Sperelli "nell'esercizio dell'arte e leggeva gli strumenti difficili esatti, perfetti, incorruttibili: la metrica e l'incisione e intendeva proseguire e rinnovare le forme tradizionali italiane con severità riallacciandosi ai poeti del Dolce Stil Novo e ai pittori che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito era essenzialmente formale. Chiude il pensiero, amava l'espressione" Queste parole sembrano un autoritratto perché lo spirito di d'Annunzio è essenzialmente formale: predilige la forma, l'espressione rispetto al contenuto. I romanzi di d'Annunzio sono generalmente privi di dinamismo: abbondano di descrizioni e scene statiche, le scene dinamiche non riescono a dare il senso del movimento. Stile Lo stile del Piacere è omogeneo e dunque analizzandone una parte si ottengono informazioni che possono essere estese a tutto il libro. → Per prima cosa va notato che lo stile è coerente con il livello culturale del protagonista e dell'ambiente rappresentato. Ne sono tratti caratteristici a metà tra la forma e il contenuto la tendenza alla sovrabbondanza e all'esasperazione all'enfasi per cui tutto è portato al massimo grado possibile: "invincibile tristezza, frustrazione infinita, senso inesprimibile" D'Annunzio utilizza un lessico colto e raffinato, dotto, vicino al latino e utilizza anche parole straniere quando non trova un equivalente italiano ad esempio "en coupe, de mi monde". Tutto il libro abbonda di riferimenti colti, sono nominati poeti, scrittori, musicisti ed artisti, sculture e dipinti in particolare vengono chiamati in causa per descrivere le fisionomie e le vesti dei personaggi. Da un lato anche questo aspetto dello stile dannunziano è congruente con le passioni di Sperelli; dall'altro serve a far crescere nel lettore il fascino per il personaggio, un fascino che nasce da una specie di senso di inferiorità culturale. FASE DELLA "BONTA"" GIOVANNI EPISCOPO Tra il 1889 e il 1890 d'Annunzio abbandona moglie e figli e si trasferisce in un monolocale a Roma che arreda in maniera stravagante e kitsch, sovraccaricandolo di reliquie, tappeti, oggetti esotici e preziosi. In quest'ambiente, molto simile a quello in cui vive il protagonista del Piacere, d'Annunzio lavora al romanzo breve "Giovanni Episcopo" (1891), che segna un allontanamento dagli artifici dell'estetismo e sfrutta un nuovo filone, quello della "bontà". Il protagonista è un umile impiegato che, vittima delle prepotenze altrui, si macchia di un omicidio; il romanzo, come gli altri che lo seguiranno, risente dell'ambiente vissuto dall'autore durante il servizio militare ma anche della lettura appassionata dei narratori russi dell'800: è la fase solitamente definita della "bontà", caratterizzata da un'esigenza di rigenerazione e di purezza come quella espressa nei romanzi russi dell'800. L'INNOCENTE Sempre alla fase della "bontà" appartiene "L'innocente" (1892). È scritto in forma di confessione dell'egocentrico esteta protagonista Tullio Hermil, che in 51 capitoli ripercorre le vicende che lo hanno portato a compiere un orrendo delitto. Tullio tradisce ripetutamente la moglie Giuliana e riscopre l'amore coniugale solo dopo la fine della tormentata relazione con la sua possessiva amante Teresa Raffo. A poco a poco però, si insinua in lui il dubbio che la moglie abbia a sua volta un amante, uno scrittore alla moda, Filippo Arborio. Sopraffatto dalla gelosia e da un rinnovato desiderio di ricomporre il rapporto coniugale, si ritira con Giuliana nel podere di famiglia, confidando in una sorta di rinascita spirituale e sentimentale. Ma quando viene a sapere che i suoi sospetti sono fondati e che Giuliana aspetta un figlio non suo, il suo tormento si fa subito insopportabile. Mentre cresce la sua attrazione morbosa per la moglie, che lui non si sente di accusare ritenendosi il vero responsabile del tradimento, il suo odio si rivolge contro il bambino che la donna ha in grembo. L'innocente nasce, viene affidato alle cure della nonna, ma è odiato da Tullio che, la notte di Natale, non visto, lo espone al gelo invernale causandone la morte. Tullio Hermil è come Andrea Sperelli un eroe decadente, egoista e nevrastenico, vittima del proprio morboso desiderio sessuale. Egli tenta di sottrarsi a questa sorta di dipendenza, che a sua volta si intreccia con l'odio per l'innocente nato dall'adulterio della moglie, attraverso la scoperta di una bontà e di una realtà che non gli appartengono. POEMA PARADISIACO:Consolazione Appartiene alla fase della "bontà" anche il "Poema Paradisiaco", pubblicato nel 1893. Questo raccoglie poesie composte e già in parte edite nei 3 anni e mezzo e precedenti. Ha una struttura attentamente calcolata perché, nonostante sia formato da brevi poesie distinte l'una dall'altra, per la coerenza dell'insieme merita il nome di "poema" che di solito si dà a composizioni poetiche suddivise in canti ampi. →Il titolo ci da anche un'altra indicazione: l'aggettivo "paradisiaco" rimanda all'etimologia greca della parola "paradiso" che significa "giardino" e, di fatto, i giardini hanno un ruolo privilegiato nella raccolta. Il "Poema Paradisiaco" da, nella poesia "Consolazione", una nota tipica dell'intera raccolta. Dopo anni d'amore e vita mondana, il poeta torna a casa. Lo accoglie la madre anziana e intristita: il figlio cerca di consolarla, promettendole che rimarrà con lei e il loro rapporto tornerà solido com'era un tempo. Dal punto di vista del contenuto, la voce narrante esibisce la bontà dei propri sentimenti: l'affetto filiale, il pentimento, il desiderio di cambiar vita, la memoria e il rimpianto dell'infanzia e della famiglia. Dal punto di vista dello stile si ha un'intonazione bassa, quasi prosastica, che per d'Annunzio che ha sempre usato un linguaggio raro, aulico e solenne, è una novità. Il poeta ritorna a casa come un figliol prodigo, si rivolge alla madre anziana, la invita ad uscire al pallido sole di settembre, le confessa di essere "stanco di mentire" (v. 2) e le promette che d'ora innanzi vivrà "una vita semplice e profonda" (v. 34): vuole purificarsi attraverso la pura mano della madre che sarà per lui come "l'ostia che monda" (v. 35). Tutto concorre a creare un'atmosfera di stanchezza e "abbandono" (v. 11), il periodo dell'anno è settembre: la luce del sole è tenue (vv. 18-19), la natura si prepara all'inverno: le rose sono poche, rare le piante. Il luogo in cui il poeta vuole passeggiare con la madre, che ha uno sguardo stanco (v. 21), è un giardino abbandonato (v. 5) di una villa in decadenza. Le tende sono scolorite (v. 53), nelle stanze di sente un odore delicato (v. 54), debole come di viole sfiorite (v. 56); al pianoforte manca qualche corda (vv. 49-50). Il poeta vuole recuperare quanto è stato trascurato e dimenticato (v. 14), infatti il ritorno a casa è anche un ritorno al passato, un desiderio di farlo rivivere ritornando alla vita familiare: "Tutto sarà come al tempo lontano" (v. 65); il poeta ricorda la madre, la dolcezza di "certe cose del passato" (v. 8) e del "tempo lontano" (v. 30), rinascono le immagini di un'aprile defunto, di una primavera dissepolta quando il poeta non era ancora andato via di casa. Il canto, che il poeta compone per la madre e non per una delle sue innumerevoli amanti, ha una grazia "vaga e negletta" (v. 64) e questa qualità estetica si può interpretare come una sorta di programma valido per tutto il "Poema Paradisiaco". ROMANZI DEL SUPERUOMO 1-Trionfo della morte In un pomeriggio piovoso di marzo, Giorgio Aurispa e la sua amante Ippolita Sanzio passeggiano a Roma in un parco dove si è appena suicidato un uomo. Giorgio sente l'attrazione della morte e riflette sull'infelicità del suo rapporto con la bellissima Ippolita, per la quale prova un'intensa attrazione sessuale. Per celebrare il secondo anniversario della loro relazione, i 2 amanti trascorrono una breve vacanza in campagna, ad Albano Laziale, fatta di passeggiate e di voluttuosi amplessi. Rientrati a Roma, Ippolita parte per Milano e Giorgio, roso dalla gelosia, si reca a visitare i genitori nella casa natale di Guardiagrele in Abruzzo. Qui, girovagando per i luoghi della sua infanzia, ricade in preda al solito impulso di morte, meditando sul triste caso di uno zio suicida. Per lenire la sua disperazione si ritira in un eremo, posto in un'idillica località sul mare, facendo vita da asceta (rifiuta le cose materiali). Ma con l'arrivo di Ippolita si scopre sempre più debole e incapace di controllare la sua bramosia sessuale, che ogni volta lo lascia spossato e frustrato, incapace di possedere realmente l'amante che vede sempre più come un'estranea e una nemica. Dopo un pellegrinaggio al santuario mariano di Casalbordino, il debole e nevrastenico Giorgio, immerso in una superstizione barbarica e primitiva, sogna di trasformarsi, attraverso la scoperta di Nietzsche del superuomo, in un uomo forte, dalla volontà incandescente; così, dopo giorni di delirio in cui rivive il "Tristano e Isotta" di Wagner, simbolo di amore e morte, ossessionato dall'idea del suicidio, conduce Ippolita sopra un promontorio e, avvinghiato a lei, si getta nel vuoto. Giorgio Aurispa, cinico ed egocentrico, sopraffatto dal desiderio sessuale, ricorda Andrea Sperelli ma la sua debolezza morale, la sua malattia psichica e le sue tendenza autodistruttive lo allontanano dalle caratteristiche di quel modello. Combattuto tra desiderio dei sensi e impulso di morte, finisce con il soccombere nell'omicidio-suicidio finale. In questa conclusione dell'opera è introdotto un tema che diventerà dominante nei romanzi successivi, il mito del superuomo. Grazie ad esso il protagonista vede la possibilità di liberarsi del fascino fatale di Ippolita (Barbara Leoni amata da d'Annunzio) e concepisce l'idea di ucciderla, di sopprimere la nemica che ostacola i suoi propositi di redenzione e di rinascita. 2-Le vergini delle rocce Tra gennaio e giugno del 1805 il romanzo "Le vergini delle rocce" esce a puntate sulla rivista romana "Il Convito" (la stessa sulla quale compaiono alcuni Poemi conviviali di Pascoli). Ristampato in volume dalla casa editrice milanese Treves nel 1896, il libro ha un grande successo: migliaia di copie esaurite nel primo anno. La trama Claudio Cantelmo, un nobile romano di antica stirpe, è disgustato dalla crescita economica, sociale e politica della borghesia, degli affari e delle professioni: gli ripugnano la mancanza di cultura e di stile di quei parvenus. Decide così di generare un figlio che, riassumendo in una sintesi eccellente le caratteristiche degli avi, imponga il suo dominio sulle plebi e, restaurati i valori aristocratici, le conduca verso mete ambiziose, diventando il "nuovo re di Roma":"Egli sarà capace di construir compiutamente e di gittar verso l'avvenire quell'ideal ponte su cui alfine le stirpi privilegiate potranno valicar l'abisso che oggi sembra dividerle dal dominio ambito". Cantelmo si ritira nella località dove aveva trascorso l'infanzia, nell'antico Regno delle Due Sicilie, alla ricerca di una donna all'altezza del compito. Inizia a frequentare la famiglia dei principi Capece Montaga. Attirano la sua attenzione le tre giovani figlie Violante, Massimilla e Anatolia, ciascuna con caratteristiche intellettuali e spirituali distinte e complementari. La scelta di Cantelmo cade su Anatolia, che però rifiuta la proposta di matrimonio per prendersi cura dei genitori (il padre è anziano, la madre demente) e del fratello, psichicamente instabile. La stessa Anatolia suggerisce a Cantelmo di chiedere la mano di Violante. La vicenda avrebbe dovuto continuare in altri due romanzi La Grazia e L'Annunciazione, che però non furono mai scritti: da alcuni appunti sappiamo che Violante avrebbe accettato la proposta e che il figlio da lei partorito sarebbe, infine, morto in culla. La dimensione lirica Il romanzo ha tra i suoi motivi di interesse la tecnica narrativa. A fronte di una trama scarna di avvenimenti, d'Annunzio sceglie un andamento lirico, che segue le impressioni e le riflessioni dell'io narrante, trascurando (o sovvertendo) l'ordinamento cronologico. Per esempio, già nel Prologo, Cantelmo racconta del suo arrivo nel giardino nobiliare e presenta le tre principesse, Violante, Massimilla e Anatolia. A ciascuna di esse Cantelmo cede la parola per una sorta di autopresentazione: tuttavia, sono tre discorsi che lo stesso Cantelmo dichiara fittizi, frutto della sua immaginazione ("Così parlano in me le tre principesse mentre le evoco aspettanti nell'ora irrevocabile"). In due lettere al suo traduttore francese Georges Hérelle, d'Annunzio afferma con chiarezza l'intenzione di voler far prevalere la dimensione lirica su quella narrativa: "questo romanzo è tutto penetrate di poesia, è anzi un vero e proprio poema" (12 novembre 1895); "Pensate che io ho voluto comporre un poema e non un romanzo nel senso volgare della parola; e che sono partito da questo principio: "La poesia è la realtà assoluta, Quanto più una cosa è poetica, tanto più è reale"" (5 maggio 1895). Quest'ultimo principio è una citazione dal poeta romantico tedesco Novalis, e segna in maniera molto netta la distanza tra d'Annunzio e il naturalismo di Zola e Verga, da cui pure era stato affascinato una decina d'anni prima. La teoria dell'Übermensch Il secondo motivo d'interesse del romanzo è la vicinanza tra le idee di Claudio Cantelmo e la teoria dell'Übermensch ("superuomo") proposta dal filosofo tedesco Nietzsche: proprio d'Annunzio, nel Trionfo della morte, diede avvio alla fortunata traduzione di questo termine con "superuomo" (una proposta alternativa è "oltreuomo"). D'Annunzio non è però (né ambisce a essere) un divulgatore fedele del pensiero nietzscheano: ne dà piuttosto un'interpretazione personale, basata su una riduzione in chiave estetizzante e politicamente reazionaria. LA PIOGGIA NEL PINETO La caratteristica dominante della lirica è la musicalità del linguaggio. Consapevole del profondo legame tra poesia e realtà nascosta dietro le semplici apparenze, D'Annunzio ha cercato di riprodurre il linguaggio segreto della natura che in questa lirica è la voce della pioggia. La musica che essa produce cadendo sugli alberi del bosco. → La prima strofa si apre con l'invito del poeta rivolto alla sua donna (Taci e Odi), ad accogliere le parole più nuove, non umane, pronunciate da gocciole e foglie del bosco. L'attenzione è rivolta a distinguere i suoni prodotti dalla pioggia sulla vegetazione e a definire i tratti umani che essa bagna. L'aggettivo silvani riferito ai volti sottolinea l'inizio della metamorfosi panica che rende partecipi il poeta superuomo e la sua compagna della sinfonia naturale orchestrata dalla pioggia la cui musicalità scrosciante è ottenuta mediante le numerose ripetizioni lessicali e gli enjambement che sembrano ricondurre il rumore delle gocce cadenti. Sul finire della strofa viene introdotto uno dei temi centrali della lirica "la favola bella che ieri ha illuso la donna e oggi illude il poeta"; gli stessi versi ritornano uguali alla fine della lirica quasi a sottolineare la circolarità dell'esperienza panica. Secondo alcuni critici la "favola bella" rappresenta l'illusione dell'amore, ma sembra in realtà probabile che d'Annunzio voglia qui riferirsi all'arte (il teatro per la donna, la poesia per lui), sottolineandone da un lato il carattere totalizzante capace di distogliere l'uomo da ogni altra aspettativa, dall'altro la natura effimera, in grado di illudere per un momento ma destinata a sparire: si spiegherebbe così l'uso del verbo al passato per la Duse (che all'epoca in cui fu scritta la lirica aveva già 44 anni e la sua carriera si stava avviando verso il declino e del presente di D'Annunzio che si trovava invece al culmine della sua parabola artistica). → La seconda strofa introduce il canto delle cicale che si unisce a quello dell'orchestra degli alberi suonati dalle dita della pioggia. Subentra poi la ripresa del motivo panico con una e vera propria metamorfosi del poeta e di Ermione in creature silvestri, già avviata nella prima strofa (volti silvani): i due esseri umani, piante tra piante, sono accomunati nello spirito della selva e partecipi della vita degli alberi (d'arborea vita viventi). Il poeta ne coglie i segni nel volto di lei che, inebriato di gioia, è come una foglia e nei suoi capelli che profumano come "le chiare ginestre". → Nella terza strofa il canto delle cicale si attutisce, subentra quello delle rane e poi si spegne del tutto. Nel silenzio si ode solo il suono vario della pioggia, poi la voce della rana riappare misteriosamente da un luogo non identificato. La strofa si chiude con una ripresa appena accennata del motivo panico: la pioggia infatti scende sulle ciglia di Ermione che corrispondono alle varie foglie su cui scroscia la pioggia. → L'ultima strofa vede il trionfo del motivo panico con la totale assimilazione del poeta superuomo e della sua donna alla vegetazione circostante. I due innamorati si sentono trasformati in piante: la donna è definita virente, il cuore è come una pesca intatta, gli occhi come sorgenti d'acqua, i denti come mandorle acerbe. In preda all'ebbrezza essi si immergono nel folto della vegetazione che si avvinghia alle caviglie e alle ginocchia, bagnati dalla pioggia che li ha rigenerati in nuove creature. All'orchestrazione fonica della lirica contraddistingue la ripetizione di vocali e di gruppi consonantici o di parole sia ad inizio verso (anafora) sia a fine verso (epifora); da notare anche la posizione ritardata del nome della donna che compare sempre a concludere il periodo e la strofa, il succedersi delle rime e di numerose assonanze e l'uso degli enjambement concorrono a creare una fitta trama sonora. NOTTURNO Le circostanze compositive D'Annunzio, reso cieco all'occhio destro nel gennaio del 1916 in seguito a un incidente di volo, fu costretto a rimanere a letto bendato per settimane, onde evitare la cecità completa. In questo periodo di convalescenza scrisse febbrilmente quest'opera in circa diecimila striscioline di carta, "diecimila cartigli", che la figlia Renata, con amorevole pazienza, decifrò e trascrisse, Lo stesso poeta descrisse così la sua particolare "tecnica" di scrittura: "Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati sugli orli della lista, lo fanno scorrere via via che la parola è scritta". La struttura Il materiale, rielaborato e arricchito con altro preesistente e successivo, fu pubblicato nel 1921 con il titolo Nottumo, una sorta di diario che comprende meditazioni e ricordi affiorati alla mente del poeta convalescente. Il titolo dell'opera vuol essere un richiamo alla situazione di cecità, di buio in cui prese l'avvio l'opera suddivisa in tre parti denominate Offerte, forse con riferimento alle offerte votive per propiziarsi una pronta guarigione. A queste segue un'Annotazione finale, in cui D'Annunzio chiarisce ai lettori le circostanze di composizione e i temi dell'opera. I temi I tipici temi dannunziani cedono qui il passo a un atteggiamento quasi mistico che privilegia i temi della memoria, dei ricordi, della madre morta e dei compagni d'arme caduti in guerra. dello scavo introspettivo e dell'autoanalisi. Lo stesso D'Annunzio spiega nell'Annotazione: "Per più settimane, mentre stavo supino in veglia, mentre soffrivo senza tregua l'insonnia, io ebbi dentro l'occhio leso una fucina di sogni che la volontà non poteva né condurre né rompere. Il nervo ottico attingeva a tutti gli strati della mia cultura, e della mia vita anteriore, proiettando nella mia visione figure innumerevoli con una rapidità di trapassi ignota al mio più ardimentoso lirismo. Il passato diveniva presente, con un rilievo di forme e un'acredine di particolari che ne aumentavano a dismisura l'intensità patetica". Lo stile Lo stile dell'opera riflette l'idea di una realtà conoscibile per via SIMBOLICA sotto forma di trasfigurazione della vita inconscia; per questo alla descrizione sono preferiti suggestione e richiamo allusivo, all'artificiosità estetizzante l'ispirazione mistica. Le pagine sono composte quindi in alta prosa lirica, fatta di periodi brevi e spezzati, PARATATTICI, in cui spesso è assente il verbo (SINTASSI NOMINALE); questi FRAMMENTI rendono lo stile impressionistico, essenziale, ricco di suggestioni appena accennate, di sensazioni acustiche e di allucinazioni che sembrano tradurre le visioni di una mente alterata dalla malattia. La continuità è data solo dalla libera associazione di immagini che mescolano presente e passato. DOPO IL RISORGIMENTO Giovanni Pascoli (nato nel 1855) e Gabriele D'Annunzio (nato nel 1863) sono a prima vista tra loro diversissimi, eppure possono essere utilmente accostati, perché sono i primi poeti dell'Italia moderna, da poco nata come nazione. È questa la differenza fondamentale dal loro comune maestro Giosuè Carducci, il poeta italiano "ufficiale" di fine Ottocento (non a caso ricevette il premio Nobel nel 1906), formatosi per nascita e cultura durante gli anni del Risorgimento. Infatti la tematica risorgimentale, con le delusioni dei primi decenni della storia politica italiana, ha una presenza cospicua nella sua opera, mentre per Pascoli e D'Annunzio il Risorgimento è già diventato un capitolo di storia, anche se recentissima, e l'orizzonte della loro poesia è invece quello degli anni compresi tra l'ultimo ventennio del secolo e la Prima guerra mondiale. →Sono gli anni in cui l'Italia comincia a diventare, sia pure con ritardo e gravi squilibri interni, una nazione moderna dal punto di vista politico (con l'allargamento progressivo del corpo elettorale e della presenza delle masse), sociale (con la crescita dell'alfabetizzazione causata dai primi progressi dell'istruzione pubblica obbligatoria) ed economico (con il cosiddetto "decollo" del capitalismo industriale nell'Italia del Nord). Tanto l'opera di Pascoli quanto quella di D'Annunzio nascono entro questo contesto e, in modi diversi ma convergenti, questi due autori riflettono e contribuiscono a formare le prime generazioni di italiani colti nati o formatisi dopo il Risorgimento (come dimostrano il loro immediato e duraturo successo e il rapido ingresso nel canone scolastico). "L'UOMO DANNUNZIANO" E "L'UOMO PASCOLIANO" Per capire in che modo due poeti così diversi hanno espresso e formato il primo pubblico italiano moderno, possiamo partire dalla spiritosa distinzione del critico e scrittore Edoardo Sanguineti il quale ha coniato le definizioni di homo pascolianus ("uomo pascoliano") e homo dannunzianus ("uomo dannunziano") per individuare due tipi umani ideali, due visioni del mondo, due identità storiche che emergono dall'opera dei due poeti, ma anche per distinguere tra i due tipi di pubblico a cui si indirizzano prevalentemente l'opera dell'uno e dell'altro. →Semplificando la riflessione di Sanguineti, possiamo dire che l'homo pascolianus e l'homo dannunzianus sono due volti della borghesia italiana di fine secolo: ● il primo sintetizza i caratteri della piccola borghesia rurale o di quella urbana ancora legata alle sue origini rurali e a una cultura arcaica, patriarcale, tradizionalista, naturalmente conservatrice; il secondo è invece il ritratto ideale di una borghesia medio-alta che vuole sentirsi "moderna" e storicamente giovane, legata a un'economia e a uno stile di vita individualistici e "trasgressivi", caratterizzata dal desiderio del lusso e che guarda l'aristocrazia come un modello da imitare. Nel mondo dell'uomo pascoliamo dominano il fascino della purezza dell'infanzia, dei sentimenti semplici e delle piccole cose, l'ossessione della famiglia e il culto familiare dei morti, l'uomo dannunziano, all'opposto, si presenta con un atteggiamento aggressivo e "avventuroso"; nel suo mondo sono fondamentali gli ideali "virili", il culto della forza e delle infinite conquiste femminili (tipica ossessione italiana moderna), il mito dell'individuo eroico e dominatore delle masse, e quello corrispondente della "donna fatale", bellissima quanto insidiosa, la predilezione per gli oggetti e gli scenari ricercati, adeguati a una vita "eccezionale" ("inimitabile", per usare il termine di D'Annunzio). →Ma questi due volti, per quanto sembrino inconciliabili, sono due facce della medesima medaglia: una parte importante della popolazione italiana del primo Novecento, l'ultima generazione dell'Italia liberale, dalla cui crisi e morte sarebbe nata l'Italia fascista, aveva acquisito nella sua identità culturale tanto il mondo dell'homo pascolianus quanto quello dell'homo dannunzianus. Si tratta certo di una contraddizione, ma forse non è la sola da cui è nata l'Italia moderna.